È il 1985. L’Italia in tv guarda il Drive In e una fiction che in America ha spaccato e che si intitola Dallas. Milano è la città dei paninari, adolescenti che camminano in Timberland, vestono Moncler, si fanno le lampade e simpatizzano a destra. Io no, troppo lontana ideologicamente (ed economicamente) da loro e, in realtà, vicina a nessuna moda.
Domani c’è interrogazione di inglese, ma chissene. Nemmeno una secchiona come dicono che io sia oggi può stare in casa a studiare. È dalle tre del pomeriggio che sono inchiodata qui davanti al Palatrussardi, nello zainetto Invicta un panino, dell’acqua e un biglietto per il concerto degli Spandau Ballet. Io e le mie amiche l’abbiamo comprato mesi fa da Mariposa in Duomo, appena uscita la notizia del tour, e adesso non contiamo più i minuti.
Ci siamo bruciate la testa e il cuore per questi cinque ragazzi che arrivano da Londra col loro pop tra new romantic e new wave. Da buone amiche, ce li siamo pure spartiti. A ciascuno il suo, niente condivisioni. Ma mentre loro oscillano come altalene tra Tony Hadley, il moro cantante dalla voce potente che trasuda eleganza, e il chitarrista Martin Kemp, occhi azzurri azzurri e fossetta sul mento, io non ho dubbi: per me esiste solo lui, Steve Norman, biondo dal fascino mediterraneo, un sorriso assassino, che suona da Dio percussioni e sax e tutto quello che gli capita per le mani.
Aprono i cancelli del Pala, ci precipitiamo dentro, una folla di assatanate e di ragazzi urlanti. Le ore volano, l’agitazione cresce. Alle nove, quando le luci finalmente si spengono sono più carica ed emozionata di quando, bambina, aspettavo la mattina di Natale per scartare i regali. Tre, due, uno… La batteria di John e la chitarra di Gary partono, in perfetto sync, su Highly Strung, subito raggiunte dal sax divino di Steve.
E poi via così, un delirio che dura oltre due ore, senza sosta, tra la sognante Only When You Leave e la travolgente To Cut a Long Story Short. E poi I’ll Fly for You, Communication, Lifeline, True… Le so tutte, le canto tutte, le ballo tutte, sull’orlo dell’estasi, pronta quasi a (s)venire ogni volta che Steve fa l’amore con il suo sax e la guerra con i suoi bonghi. E quando, terminata Gold, anche l’ultima vibrazione delle sue percussioni svanisce e le luci si accendono, io sono pronta anche a morire. Lasciatemi qui. Ho avuto tutto.
È il 2015. L’Italia in tv guarda Amici di Maria e le grandi serie americane su Sky o in streaming. Milano è la città degli hipster, delle bloggerine e (non) si sta preparando a ospitare l’Expo. E quello che avete appena letto è il report (quasi del tutto) fedele del concerto degli Spandau Ballet di ieri 24 marzo in un mediolanum forum praticamente sold out.
Trent’anni di rughe dopo (sul palco, così come sulle tribune), qualche chilo in più per John Keeble e soprattutto per Tony Hadley (ma stessa voce potente e raffinata), parecchi fili grigi in testa in più (e una brutta malattia alle spalle) per Martin Kemp e parecchi capelli in meno per suo fratello Gary. Con Steve Norman, invece, il tempo è stato decisamente più generoso. D’altra parte lo dicevo io, che lui era il migliore!
Ah, per la cronaca, quell’interrogazione poi non c’è stata. Fiuuu