Spotify ha finanziato con 150 mila euro la cerimonia di insediamento di Donald Trump | Rolling Stone Italia
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Spotify ha finanziato con 150 mila euro la cerimonia di insediamento di Donald Trump

Il giorno prima dell’Inauguration Day, la piattaforma ha inoltre celebrato con un brunch l’importanza che i podcast come quello di Joe Rogan hanno avuto nelle elezioni presidenziali. «Si tratta di una normale attività», dice Spotify. «Non vi interessano i lavoratori, ma far parte del potere oligarchico di Trump», replica United Musicians and Allied Workers

Spotify ha finanziato con 150 mila euro la cerimonia di insediamento di Donald Trump

Donald Trump e il logo di Spotify

Foto: AFP via Getty Images

Spotify ha finanziato con 150 mila euro la cerimonia di insediamento di Donald Trump. Lo riporta la testata svedese Dagens Nyheter. Con un patrimonio stimato da Forbes di 4,8 miliardi di dollari, l’AD Daniel Ek fa parte quindi del club dei multimiliardari andati per così dire in soccorso del vincitore. La donazione di Spotify è modesta rispetto alla cifre milionarie che nelle scorse settimane sono state diffuse e che riguardano colossi come Meta e Amazon.

Sveriges Radio, l’azienda radiofonica pubblica svedese, afferma che il codice etico di Spotify impedisce di effettuare donazioni a politici. Spotify ha replicato che la donazione al fondo per l’insediamento di Trump segue le linee guida aziendali perché non si tratta di una elargizione a carattere politico in quanto non a beneficio di un funzionario eletto, ma della organizzazione di una cerimonia.

Domenica 19 gennaio, il giorno prima della cerimonia di insediamento di Trump, Spotify ha inoltre organizzato un brunch per celebrare l’importanza che i podcast hanno avuto nelle elezioni presidenziali. Lo riporta Bloomberg. Il più celebre di questi podcast è quello di Joe Rogan, che ha intervistato e sostenuto Trump durante la campagna elettorale. Le teorie del complotto di Rogan hanno convinto Neil Young a far rimuovere i suoi dischi dalla piattaforma di streaming (ci è tornato dopo un paio d’anni).

«Da tempo Spotify organizza eventi a Washington D.C. e in altre capitali del mondo», si legge in una dichiarazione della piattaforma inviata a Bloomberg a proposito dell’inauguration brunch. A tali eventi partecipano «leader politici, personalità dei media, colleghi del settore appartenenti a tutto lo spettro politico. Si tratta di una normale attività».

«A questi CEO mega-ricchi non frega nulla dei lavoratori che fanno funzionare le loro aziende, ma solo d’esser parte del potere oligarchico di Trump», ha commentato l’account X di United Musicians and Allied Workers (UMAW), sorta di sindacato che mira a organizzare i lavoratori della musica per difenderne i diritti (che fa notare inoltre che il direttore della comunicazione di Spotify ha lavorato per George W. Bush).

Nelle scorse settimane si è parlato di Spotify per via dell’inchiesta pubblicata da Harper’s e firmata da Liz Pelly, giornalista e autrice di Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist (qui la nostra intervista). Secondo Pelly, «dietro alla musica di oltre 500 artisti fantasma, che hanno migliaia dei brani su Spotify ascoltati milioni di volte, c’è il lavoro di una ventina di persone». Non si tratterebbe di cani sciolti che cercano di guadagnare in modo illecito da Spotify, ma di una iniziativa di cui la piattaforma sarebbe non solo consapevole, ma anche in qualche modo partecipe.

«Ho scoperto che Spotify non si limita ad avere una partnership con una rete di società di produzione» che forniscono la musica di questi artisti “fantasma”, «ma ha anche un team di dipendenti che lavora per inserire queste canzoni nelle playlist». Facendolo, scrive Pelly, Spotify lavora attivamente per far crescere la percentuale di musica ascoltata in streaming che è più economica per la piattaforma rispetto a quella fornita da artisti “reali”.

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