Dall’inizio del 2024 Spotify ha cambiato il modello di rimunerazione, tagliando fuori gli artisti che fanno pochi stream. Le tracce che hanno realizzato meno di 1000 ascolti nell’anno precedente non verranno più remunerate nel mese in corso (lato registrazioni, non publishing). Si tratta di numeri spesso irrisori per i singoli artisti, ma sono comunque milioni di dollari. Si stima siano 40 e verranno ridistribuiti ad artisti più ascoltati.
Non è ancora chiaro quando di preciso verrà implementato il nuovo sistema. «Stiamo collaborando con tutti i partner di licenza per finalizzare il piano e puntiamo ad attuarlo all’inizio del 2024», si legge sulla piattaforma. Di sicuro, dopo l’annuncio la decisione ha suscitato un dibattito acceso. Spotify è stata descritta come un Robin Hood al contrario, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. La piattaforma ha spiegato che la rimunerazione per le tracce che realizzano meno di 1000 ascolti in un anno è talmente bassa che spesso per gli artisti e i loro rappresentanti cercare di riscuoterla è anti-economico.
È arrivato ora (via Digital Music News) il report annuale di Luminate, società che fornisce dati relativi al settore dell’intrattenimento: sono circa 152 milioni le canzoni che realizzano meno di 1000 stream in un anno, di cui quasi 80 milioni vengono ascoltate meno di 10 volte nell’arco di 12 mesi. Circa 42 milioni di pezzi ottengono da 11 a 100 stream annui, 30 milioni da 101 a 1000 stream.
Le canzoni che ottengono meno di 1000 stream, spiega Luminate, sono l’82% del totale, una cifra altissima che dà un’idea dell’affollamento di musica sulla piattaforma i cui ascolti però si distribuiscono in una piramide al cui vertice ci sono 2600 canzoni che totalizzano più di 100 milioni di stream annui l’una.
Secondo molti, c’è qualcosa che non va in un mercato che è aperto a tutti, ma che produce come risultato che 45 milioni di canzoni non vengano ascoltate da nessuno. E questo in un mercato in crescita i cui benefici vanno ai grandi colossi. È l’opinione ad esempio di Damon Krukowski, membro del duo Damon and Naomi e dei Galaxie 500 e da tempo in prima linea nel denunciare le storture del sistema discografico visto dal “basso”.
«La piramide degli introiti derivanti dallo streaming è già ripida a causa di algoritmi, playlist e payola», scrive Krukowski su X. «Ora, grazie al nuovo metodo di conteggio di Spotify, l’82,7% dei brani presenti sulla piattaforma non verrà remunerato affatto: gli introiti di questi brani verranno reindirizzati a chi sta in cima alla piramide. Una tassa regressiva».
Un altro utente di X fa un conto approssimativo che aiuta però a capire l’insoddisfazione dei piccoli artisti: «Pubblichi un album di 15 canzoni. Ogni canzone viene ascoltata in streaming 900 volte. Spotify (una volta) pagava circa 0,005 dollari per stream. Per 13.500 stream fanno 67,50 dollari. Se hai cinque album come questo, fanno in totale 337,50 dollari. Ora non vedrai più quei soldi che verranno invece sommati all’assegno di qualche popstar».
A novembre, Spotify ha presentato il cambiamento nella distribuzione dei pagamenti come un modo per «sostenere meglio chi dipende per il proprio sostentamento dai proventi dello streaming». Secondo la piattaforma, il nuovo sistema, la lotta agli stream “finti” e altre misure porteranno nei prossimi cinque anni a investire circa un miliardo di dollari in più in «artisti professionisti ed emergenti».
Secondo la stima fornita da Spotify, le canzoni che vengono ascoltate meno di 1000 volte l’anno hanno generato in media 0,03 dollari al mese ognuna. «Poiché le etichette e i distributori richiedono un importo minimo per ogni prelievo (di solito dai 2 ai 50 dollari) e le banche addebitano una commissione per ogni transazione (di solito da 1 a 20 dollari), il denaro spesso non arriva agli uploader». Sommando tutti questi piccoli pagamenti si arriva a 40 milioni di dollari all’anno.