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Subsonica, la band che svoltò un decennio

Max Casacci ci racconta la "spallata" che a fine anni '90 ha permesso al loro suono “figlio dei rave” di plasmare una generazione. E oggi festeggiano 20 anni con un tour
I Subsonica, foto di Luca Merli

I Subsonica, foto di Luca Merli

Incontro Max Casacci nei suoi studi di registrazione nel cuore del quartiere Vanchiglia, a Torino, in una tiepida giornata di inizio estate. Mentre bevo un caffè e ripasso mentalmente una storia artistica lunga vent’anni, la nuova giunta si è appena insediata in città e i festeggiamenti si consumano rumorosi al tavolo di fianco al mio. Sto per intrattenermi qualche ora con un vero mago della musica italiana, un colto sperimentatore che fa ballare grandi folle e come un ragazzino felice mi concederà con entusiasmo un generoso ascolto di alcuni passaggi della sua ultima opera electrojazz, direttamente davanti al banco del mixer. Parliamo di linguaggi, giochi sonori, Subsonica, world music, nuova musica italiana e, non di meno, di sogni realizzati e paure. Come sempre succede con chi ha continue nuove idee e progetti per le mani… sono arrivata e l’ho interrotto.

Cosa stavi facendo?
Ho ripreso in mano la tela di Penelope di un progetto sui suoni della città che, dopo Glasstress, sto portando avanti con Vaghe Stelle. Abbiamo passato giornate e nottate in giro per Torino, allo stadio e alla Stampa a registrare i suoni delle rotative. La voce musicale della città saranno i jazzisti di Torino.

Ma come fai a tenere insieme ancora la band, il tuo mondo musicale da solista, la produzione?
Guarda, fin da ragazzino, se ciò che faccio è finalizzato alla musica io sto bene, più me ne circondo e più sono nella mia dimensione, qualunque essa sia. In passato ho fatto il facchino e il tecnico del suono. Mi ha sempre affascinato l’aspetto inafferrabile di quest’arte, ho sempre desiderato incrociare elementi diversi, sperimentare anche con la materia umana. Per me la socialità è tale se c’è la musica di mezzo. Così tengo insieme le cose.

Lo spirito DIY di cui racconti sempre parlando della genesi dei Subsonica è da ascrivere a questo spirito di sperimentazione?
Sì, assolutamente. Sperimentavamo con i linguaggi elettronici, avevamo una formazione classica, ma cercavamo di far suonare la batteria con i suoni dei campionatori dell’epoca. Giocavamo, ma abbiamo avuto da subito un approccio scientifico, un nostro modulo di ricerca che poi è quello che ha portato al nostro primo demo e poi al primo disco che abbiamo registrato con mezzi ridotti a disposizione.

Perché avete scritto in italiano da subito?
Nei primi anni ’80 gente come Siouxie o i Talking Heads avevano originato la fascinazione del mito dei luoghi lontani: “Sono a Torino, ma vorrei essere a Londra”, per intenderci. Alla fine del decennio la geografia della musica subiva il terremoto della world music poi degenerata in musica di maniera, ma che ci spinse a guardare oltre gli Usa, oltre Manchester. Seguivamo artisti che cantavano nella loro lingua d’origine e cercavano la loro specificità. Paradossalmente ci sentivamo tutti in dovere di provare a farlo anche noi, legittimati proprio dall’internazionalità del fenomeno.

Cercavate il senso o un gioco di suoni testo&musica? I Subsonica, come Battiato per la generazione dei genitori dei vostri primi fan, si cantavano a memoria, ma ho sempre avuto l’impressione che il significato dei pezzi sfuggisse in gran parte.
Il paragone mi onora e imbarazza. Immagino che il senso dei testi cantati sfuggisse perché, in effetti, gran parte del gioco per noi era costituito dal cantato in italiano su un suono anche figlio dei rave. Poi certo, ogni tanto ci infilavamo anche qualche significato (ride), però per noi era importante questo mix nuovo.

Parlando di altri esperimenti: tra quelli degli indipendenti a Sanremo, Tutti i miei sbagli (uscito nel 1999, ndr), è stato il pezzo più riuscito. Penso che solo gli Afterhours avrebbero potuto ottenere qualcosa di simile con Non è per sempre. Come avete fatto? Dove avete colpito?
Credo che una generazione innamorata di orchestre storte abbinate ai synth, com’è quella cresciuta con i Depeche Mode, abbia visto qualcosa di quel mondo in noi proprio in quell’occasione. Pensa che avevamo rifiutato, poi i responsabili della commissione ci hanno detto che saremmo stati tra i big e allora ci abbiamo provato, ma scrivere un pezzo per il festival era diventata una questione troppo condizionante.

E alla fine?
Un giorno ero da Samuel che rantolava con una voce baritonale questo motivo ipnotico e un po’ Dinosaur Jr. e lo suonava incessantemente. Mentre lasciavo casa sua, mi rendevo conto che mi era rimasto in testa, così sono tornato indietro e gli ho citofonato. Gli ho detto di salire di una quinta e che, secondo me, quella era proprio la roba giusta per Sanremo. Abbiamo attraversato tre isolati sotto i portici, siamo arrivati in studio e ci abbiamo costruito una strofa senza il testo. Le uniche concessioni che abbiamo fatto all’idea di portare un pezzo a Sanremo sono poi state un testo che ricordasse, a modo proprio, i sentimenti e che si salisse di tono con l’orchestra annessa.

Sul tuo profilo Facebook ho visto una foto bellissima, in cui con Cristiano Godano e Manuel Agnelli celebrate il “Velvet” di Rimini, locale storico della scena degli anni ’90. Vedendovi ho provato un’enorme commozione sottolineata dal fatto che oggi mi pare che per gli artisti sia difficile identificare un intento comune in un senso artistico più alto.
Sai, oltre a essere amici, eravamo persone che condividevano lo stesso percorso e ci accomunava una sorta di ambizione a impadronirci sempre di maggiori spazi, ma non tanto per noi stessi. Eravamo una generazione capace di essere sufficientemente “ariete” da provare a sfondare certe barriere anche per ragioni diverse da quelle puramente egotiche. Gli anni ’90 chiedevano fortissima adesione al reale, vedevamo la gente che riuscivamo a portare ai concerti e i media che, al tempo stesso, non passavano nulla del nostro mondo e pensavamo che questo rendesse il momento propizio a dare una spallata tutti insieme.

Come giudichi, a posteriori, quest’impresa?
Penso che il fatto che sia sbarcata in Italia MTV in quel periodo abbia contribuito molto ad aiutarci in tutto questo, anche con un pubblico di ragazzi che, fino a un attimo prima, vivevano in provincia e non avevano idea di cosa fosse questa musica e un attimo dopo, grazie a quest’emittente così glam, si sono ritrovati di fronte i nostri volti. La nostra generazione era nata coi videoclip e quindi non vedeva l’ora di tuffarcisi dentro, e alla fine è risultata pure brava a farli. Questa cosa ha fatto in modo di metterci in contatto con una gran quantità di pubblico, e ha portato a una sopravvivenza di quel decennio che, se vogliamo, è anche un po’ innaturale.

Sopravvivenza trascinata?
Sì, ma non per colpa nostra. Forse più perché, dopo di noi – Verdena a parte, che sono arrivati proprio in coda agli anni ’90 – c’è stato un altro decennio molto esterofilo e wannabe. Oggi, invece, vedo degli spiragli nuovi e voglio scoprire come va a finire. Mi pare che finalmente si sia chiarito che l’autoghettizzazione del tipo “o sei così oppure devi morire” sia finita e non regga più in termini di sostenibilità. Credo che si sia aperta una fase interessante, in cui gli artisti e anche il pubblico si riescono a concedere serenamente mix di codici stilistici diversi senza i vecchi paraocchi. Giovani come I Cani stanno cercando consapevolmente, con un mix di suoni che mi piace chiamare da pianobar del Terzo millennio, di sottrarre spazio a dimensioni più massificate e senz’altro meno talentuose delle loro.

Mi parli di pianobar del Terzo millennio, quindi mi permetto di confessarti che, ripensandovi oggi, io definirei i Subsonica il gruppo italiano del Millennium bug. “Sogna una carne sintetica, nuovi attributi e un microchip emozionale” è anni ’90, ma è linguaggio cyber futuristico.
Quei pezzi hanno assorbito un sacco di coordinate dei tempi in cui sono stati scritti, l’esempio che mi fai fa riferimento all’universo cyberpunk, ma Aurora sogna usa una dimensione narrativa per parlare di qualcosa in cui tutti possono riconoscersi anche oggi. Alla fine, se manca questo doppio fondo, una canzone non resiste mai. Poi, ovviamente, non sono io a dover dire cosa delle nostre canzoni resta o meno.

Oggi ti senti un privilegiato?
Sì, totalmente, io volevo proprio tutto questo. La cosa che più mi fa sentire così è il fatto di lavorare con persone con cui, anche nei momenti peggiori, mi sono reciprocamente scelto: dalla band all’entourage. Avere luoghi che mi sono costruito, e potermi mantenere, poter proprio fare una cosa che è la risposta alla domanda che mi facevo a 18 anni: cosa farò?

Cosa ti fa ancora tremare di paura o di piacere nel fare musica?
Niente è come il momento in cui un brano prende forma. Se si potessero verificare le quantità di serotonina quando vedi un’idea che hai rincorso realizzarsi, verrebbe fuori che è come essere drogati. Meglio ancora se dividi questo piacere con altri. Paura? Che tutto finisca.

Non pensi che sia per via di questa paura che non finisce niente?
Sì, è così, assolutamente così.

L’articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di luglio/agosto.
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