La recensione che state per leggere è stata pubblicata su Rolling Stone il 3 ottobre 1988.
Per gli standard di molte persone, un disco così scarsamente organizzato, suonato in modo impreciso e a tratti sciatto, non sarebbe nemmeno passato come demo. Ma Keith Richards è il Glimmer Twin dal cuore immerso nel garage-rock, un Rolling Stone per il quale la schiettezza non è una semplice virtù, è il vero nirvana. Lo avrebbe mai fatto in altro modo? I colpi funky della batteria in presa diretta, al posto delle imitazioni digitali di Charlie Watts, morsi volanti di chitarre crude invece di un rivestimento lussureggiante di synth, cori che potrebbero essere stati registrati da un coro di ubriaconi… Il recente lavoro solista di Mick Jagger (Primitive Cool, 1987, ndt) potrà anche essere più stiloso, ma è difficile trovare qualcosa di più “primitive cool” di Talk Is Cheap.
In effetti, il primo album da solista di Richards è un capolavoro di insuccessi. Non fa nulla di più o di meno di quello che ha sempre fatto sui dischi degli Stones, tagliando e incollando i classici blues e le citazioni alla Chuck Berry per creare brontolii di cani rabbiosi, mentre canta straziando le sue tonsille, in un modo che fa sembrare Jagger un esecutore dell’opera. Metà delle canzoni sono in realtà solo accenni e variazioni sullo schema di arrangiamenti vari estratti dal manuale dei riff dei Rolling Stones e incastrati in una forma cantabile. Big Enough è fondamentalmente Hot Stuff arricchito con il basso in loop di Bootsy Collins e lo strillante sax contralto del veterano Maceo Parker. Take It So Hard, con i suoi accordi duri e le voci in sottofondo rubate ai ragazzi di qualche bar, è una citazione dal vecchio Exile on Main Street.
Certamente poco ambizioso, l’album – scritto e prodotto da Richards e dal batterista Steve Jordan – si dilunga deliziosamente su groove pigri, come in Rockawhile e l’incredibile traccia Stoneiana Whip It Up. Make No Mistake, una copia erotica di Al Green, trova Richards in un canto crooner sorprendentemente credibile, con l’ex cantante delle Labelle, Sarah Dash, che accende un bel fuoco da camera da letto, alimentato dai Memphis Horns.
Un po’ d’ambizione l’avrebbe portato lontano. Nella sua lettera aperta a Jagger, il blues-voodoo di You Don’t Move Me, Richard si lamenta: “You made the wrong motion / Drank the wrong potion / You lost the feeling / That’s so appealing”. Ma gli album solisti esistono per uscire dal seminato. Per Talk Is Cheap, Richards si è circondato dai migliori musicisti sulla piazza – tra cui Bernie Worrell, Ivan Neville, Joey Spampinato, Waddy Wachtel e le superstar Michael Ducet e Stanley “Buckwheat” Dural – ma si concentra talmente tanto su atmosfere familiari che tutto l’album finisce per suonare come un disco degli Stones.
Sia chiaro, quest’album è una gioia da ascoltare in un’era del pop in cui gli album sono 10% ispirazione e 90% missaggio. Ma se Talk Is Cheap ha un difetto, è che i suoi piaceri sono troppo semplici: grandi groove alla ricerca di una nuova vita, così come i viaggi solisti di Jagger sono concept alla moda privi delle trovate seducenti di Keef. Se Jagger e Richard hanno imparato qualcosa dai rispettivi album solisti, è che sono uno la risorsa più grande dell’altro.