Oggi Prince avrebbe compiuto 59 anni. È passato poco più di un anno dal giorno in cui il suo corpo fu rinvenuto senza vita nella sua Paisley Park, la villa di seimila metri quadri nella periferia di Minneapolis (ora aperta al pubblico per tour guidati). Ancora oggi i giornali scandalistici continuano supporre che Prince avesse contratto il virus dell’HIV e fosse in stato terminale ma, l’autopsia ha decretato come causa un’overdose da fentanyl, un oppiaceo che il musicista della Rock Hall of Fame aveva acquistato sul mercato nero e che usava per il dolore persistente che aveva all’anca.
Era vegetariano, la sua vita era ormai morigerata, almeno per quanto riguarda l’uso di marijuana e alcol. Andava spesso in bicicletta, cucinava delle superbe uova fritte, ma aveva mantenuto la nomea di Prince of darkness con le sue telefonate notturne agli amici stretti che rispondevano quasi sempre perché Prince era davvero simpatico. Ogni sua intervista è giocata sui doppi sensi, sul tono comico con cui non si prendeva mai sul serio elargendo battute a ogni risposta. Ma era uno davvero tosto e con le idee ben chiare in testa sin dai tempi della tipica confusione adolescenziale.
«Dormiva sul divano di casa mia, non mi ricordo quanto tempo sia rimasto ma era bello averlo – spiega Sonny T., uno dei migliori amici di Prince, chitarrista della New Power Generation dal 1991 al 1996 – Quando suonavamo in cameretta capitava che si fermasse, mi guardasse e mi dicesse: “no, amico, non suonare quell’accordo, suona così, prova in quest’altro modo”. Discutevamo spesso di musica, entrambi avevamo la nostra voce, le nostre sicurezze, ci confrontavamo e ci aiutavamo». Sonny T. l’aveva visto l’ultima volta tre settimane prima della sua morte. Prince era andato a sentirlo suonare in un locale di Minneapolis. Era abbastanza raro che uscisse di casa, ma conosceva Sonny dai tempi del liceo, apprezzava il suo talento, l’aveva visto partire a 17 anni per andare a suonare il basso con James Brown e si fidava di lui, gli voleva bene.
«Prince faceva parte di una band quando eravamo al liceo – spiega Sonny, turnista di Giorgia che abbiamo incontrato insieme al suo collega batterista, Mylious Johnson – la Grand Central. Il nome l’aveva scelto lui e veniva dalla sua passione per i Grand Funk Railroad». La band era composta da Prince, André Cymone, Linda Anderson, Morris Day, Terry Jackson e William Doughty. «Io ero nella The Family – continua – suonavamo il funk alla Parliament Funkadelic, mettendoci anche un po’ di Sly and The Family Stone, Herbie Hancock, Miles Davis e Chick Corea. Nei primi anni ’70 il Way Comminity Center era lo spazio dove le nostre band si sfidavano, nel cuore della comunità afroamericana di Minneapolis. Abbiamo iniziato così a conoscerci».
Il personaggio di Prince doveva ancora delinearsi, ma la sua volontà era ben definita: l’unica cosa che non lo faceva stare male era la musica, i suoi si erano separati quando aveva 10 anni e capitava spesso che dormisse a casa di amici come Sonny o Cymone. In un intervista quest’ultimo racconta: «Era molto frustrato, se n’era andato da casa sua ed era arrivato da me dicendomi che non ce la faceva più. Si metteva i miei vestiti, in un primo momento dormivamo nella stessa stanza ma lui era troppo ordinato mentre io ero un completo casino. Poi lui si è trasferito nel seminterrato e io nell’attico».
Prince era cresciuto con un padre jazzista, a sette anni aveva composto il suo primo brano, Funk Machine, era una persona concreta che sapeva dove voleva andare. «Suonare con gli amici lo rendeva felice, la musica lo rendeva felice», doveva quindi riuscire a farne un lavoro a tutti gli effetti. «La sua etica professionale – continua Sonny T. – era racchiusa in una frase che mi ripeteva spesso: “vivi la tua routine, vai avanti, provale tutte e non fermarti”. Erano amici da quando avevano 14 anni Sonny e Prince, avevano un sound molto simile, «ma lui aveva un approccio diverso e quelli che ci sentivano suonare insieme se ne accorgevano. Era un genio folle (ride), ti portava a un livello superiore, quello delle superstar».
E infatti, a 17 anni, il suo primo demo arriva sulle scrivanie della Warner Records che lo ingaggia per tre dischi e gli offre Maurice White degli Earth Wind and Fire come producer. Il genio folle rifiuta replicando: «Il mio primo disco lo produco io». Era For You, del 1978, i credits riportano solo il nome di Prince. «Aveva le idee ben chiare in testa – spiega Sonny T. – Quando gli facevo ascoltare qualche mio pezzo mi metteva alla prova chiedendomi: “dai, amico, credi sia davvero una hit?”, io rispondevo: “certo che lo è!”, e lui: “allora suonala come credi e mettici tutto te stesso”. Poi mi guardava con quell’espressione angelica ma anche diabolica e con quel suo tono di voce acuto mi diceva, secco: “mh, ok!”».
Un talento da oltre 100 milioni di dischi venduti, quasi otto milioni solo dopo la sua morte, che riuscì a trascinarlo fuori dalle ostinate categorizzazioni razziali del mercato musicale di quegli anni per farlo esplodere sulle programmazioni video di MTV grazie alla hit Little Red Corvette contenuta nel disco 1999 del 1982. Quello, insieme a Billie Jean di Michael Jackson, fu il primo video di un musicista afroamericano ad essere inserito nelle rotazioni di MTV.
«Prince suonava rock, funk, pop e R’n’B, è stato il primo a prendere tutta la musica e a metterla nello stesso impasto del pop – sottolinea Mylious Johnson, che oltre a suonare con Giorgia, è stato il batterista di Quincy Jones, di Pink, di Jovanotti e di Tiziano Ferro – Prince fu anche uno dei primi a usare i midi durante i live e a creare una connessione tra gli strumenti analogici e quelli elettronici e digitali. Ma il suo modo di usare la tecnologia aiutava lo show, non lo costruiva completamente come avviene spesso oggi». Non andava molto d’accordo con il progresso tecnologico che intendeva un po’ alla maniera di Pasolini, distinguendo l’evoluzione sociale dallo sviluppo consumistico. C’è un’intervista in cui Prince dice: »Non uso i sample, sono un musicista, salgo sul palco e il mio microfono è acceso, sono analogico, sono vivo».
Era un innovatore in guerra con le nuove tecnologie e i social network che considerava troppo incentrati sui numeri per far bene alla gente. Eppure la sua immagine era curata in ogni minimo dettaglio sempre, avete mai visto Prince coi capelli fuori posto? No, perché aveva un parrucchiere personale attivo h24 nella stanza dedicata del suo palazzo dalle facciate industriali e gli interni purpurei. Ma non usava la sua immagine per prendere like, non aveva profili Instagram o Facebook dove pubblicare quotidianamente selfie. La tecnologia doveva essere solo serva del suo spasmo produttivo.
Amava la gente e i rapporti veri, tangibili. «Accadeva spesso che aprisse le porte della sua super villa al pubblico per condividere la sua musica su uno dei due palchi presenti all’interno: quelli del Sound Stage e del NPG Music Club», spiega Sonny. Lo chiamavano il Principe delle tenebre anche perché non iniziava mai concerti prima delle due del mattino ed era sempre l’ultimo a lasciare i locali. Era un tipo bizzarro, con le sue ideologie, le sue battaglie contro le major e la sua conversione a testimone di Geova grazie a Larry Graham, il bassista degli Sly and The Family Stone e zio di Drake.
«Nel 1993 si lanciò in un remake dell’Odissea di Omero – dice Mylious – lo vidi a New York. Si chiamava Glam Slam Ulysses, era davvero uno show da fuori di testa, ma i visual e la musica ti davano un senso di movimento pazzesco. Carmen Electra era una delle ballerine. Ma fu ancora più pazzo quando produsse la colonna sonora del primo Batman (1988): la più funky della storia delle movie score, esclusi i blaxploitation». «Era con Michael Keaton e Kim Basinger», replica Sonny. Prince nell’89 pubblicò un EP di 19 minuti con solo la sua voce e quella dell’allora compagna Basinger registrate mentre facevano sesso.
Era uno che non si curava dei pregiudizi, era un genio libero, «costantemente immerso nel processo creativo – dice Sonny – non si guardava mai indietro. Spesso prima di un concerto mi diceva: “Sonny, sai quante volte ho suonato Purple Rain? non ne posso più!”. Io gli rispondevo: “lo so e la suoneremo anche stasera!”, poi scoppiavamo a ridere. Ci sono davvero tante canzoni sue che io amo, era un fottuto genio, le sue armonie sono uniche, ogni pezzo ti fa sentire in un modo diverso».
Purple Rain, l’album del 1984 da 13 dischi di platino, colonna sonora da Oscar dell’omonimo film autobiografico, che cambiò la storia della musica pop verrà ristampato il 23 giugno con alcune tracce inedite.
In edicola trovate lo speciale di Rolling Stone dedicato al genio e alla leggenda di Prince.