Da Paint It, Black a Shine a Light, le pietre miliari di 50 anni di carriera degli Stones, scelte dalla nostra giuria di scrittori, critici, registi e artisti.
Per realizzare questo listing, abbiamo chiesto a ciascuno di questi esperti degli Stones di darci le 50 canzoni favorite. Poi abbiamo incrociato i risultati: Patrick Carney – The Black Keys; Jonathan Cott – Contributing Editor, Rolling Stone; Cameron Crowe – Regista; Anthony DeCurtis – Contributing Editor, Rolling Stone; Jon Dolan – Contributing Editor, Rolling Stone; David Fricke – Senior Writer, Rolling Stone; Robert Greenfield – Giornalista e autore; Will Hermes – Contributing Editor, Rolling Stone; Robert Hilburn
– Giornalista e autore; Howard Kramer – Direttore degli affari curatoriali Rock and Roll Hall of Fame; Chuck Leavell – Musicista; Jonathan Lethem – Scrittore; Martin Scorsese – Regista; Rob Sheffield – Contributing Editor, Rolling Stone; Lucinda Williams –
Cantautrice; Warren Zanes – The Del Fuegos.
Gli Stones arriveranno in Italia per una data unica a Lucca, il 23 settembre. Qui la scaletta del primo concerto europeo. Di recente, abbiamo parlato di Stones (e di Beatles) con Michael Caine, in occasione del film My Generation, presentato a Venezia.
80. “Fool to Cry” Beggars Banquet, 1968
Una ballata in falsetto con un insolito argomento adulto: parla di un figlio che aiuta Jagger a superare una delusione d’amore. Scritta quasi interamente da Mick, non è mai stato uno dei pezzi preferiti di Keith: nel 1976 si addormenta, mentre la suonano dal vivo.
79. “That’s How Strong My Love Is” Out of Our Heads, 1965
Nel 1965 mentre Otis Redding faceva la cover di Satisfaction, gli Stones registrano una versione del classico di Otis. Ma se Otis è malinconico, Keith e Brian Jones suonano in modo frenetico, e Mick sembra più uno stalker che il corteggiatore perfetto.
78. “I’m Free” December’s Children (and Everybody’s), 1965
Un pezzo folk rock con chitarre scampanellanti alla Byrds e un innocente messaggio libertario che non è mai stato una hit, ma è diventato uno degli inni più durevoli degli Stones. Forse per questo è un classico dei concerti: la versione che c’è in Shine a Light sembra registrata ieri.
77. “Ventilator Blues” Exile on Main St., 1972
Il titolo di questo pezzo è ispirato alla cantina di Nellcôte, dove è stato registrato: «Era divisa in una serie di bunker, non c’era molta aria», ha detto Keith. Gli Stones scavano in profondità nelle loro radici blues, ma nel farlo più che revivalisti riverenti sembrano sempre degli sporchi minatori.
76. “Bitch” Sticky Fingers, 1971
Tra tutte le canzoni degli anni ’70 con la parola “puttana” (da The Bitch is Back di Elton John a Queen Bitch di David Bowie), nessuna è più puttana di questa. Un pezzo immediato, ma registrato in una session durata tutta la notte, con Keith che arriva tardi per fare il suo riff castigatore al volo.
75. “Citadel” Their Satanic Majesties Request, 1967
Un altro momento oscuro nella fase psichedelica degli Stones. Mick è il signore del castello in un mondo in preda al caos e chiede alle dame: “Per favore venite a trovarmi nella fortezza”. Il riff da bad trip di Keith è reso ancora più strippante dal mellotron, sax e flauto di Brian Jones.
74. “Some Girls” Some Girls, 1978
«Perché abbiamo intitolato l’album “Alcune ragazze”? Perché non ci ricordavamo i loro fottuti nomi», ha detto Keith. Questa canzone è uno dei momenti più divertenti della loro carriera, con Jagger che parla della dura vita del conquistatore inseguito da groupie che “rubano i miei soldi e i miei vestiti” e racconta i suoi incontri con donne da tutto il mondo, dalle gentili cinesi alle perbeniste inglesi, alle avide americane. Una strofa in particolare fa drizzare i capelli: quando confessa di “non averne abbastanza” per soddisfare le “ragazze nere” che “vogliono essere scopate tutta la notte”. Come era prevedibile, arrivano le polemiche. Jagger reagisce dicendo che era solo uno scherzo: «Alla maggior parte delle ragazze a cui l’ho fatta sentire, Some Girls piace», dice a Rolling Stone nel 1978, «la trovano divertente, le mie fidanzate nere hanno riso. Adoro le donne e non credo che potrei mai dire niente di cattivo su nessuna di loro».
73. “Far Away Eyes” Some Girls, 1978
Accompagnato dalla pedal-steel di Wood, Jagger racconta un viaggio in macchina in cui brucia 20 semafori ascoltando su una radio gospel un predicatore che dice: “Dio è sempre al tuo fianco”. Un tributo affettuoso da parte di uno straniero alla stranezza dell’America.
72. “Cry to Me” Out of Our Heads, 1965
Cover di un pezzo di Solomon Burke registrata durante le stesse session a L.A. da cui è nata Satisfaction. Secondo la leggenda, è anche la prima volta che la band prova la cocaina. Forse è la causa delle grida nervose di Jagger, ma la versione degli Stones è persino più lenta di quella di Burke.
71. “Emotional Rescue” Emotional Rescue, 1980
Una notte in studio Jagger improvvisa un falsetto, mentre suona il piano elettrico accompagnato da Watts e Wyman. Il risultato è un monologo sessuale lungo 6 minuti che gli Stones pubblicano come singolo. Diventa una mega-hit dance in tutto il mondo.
70. “Around and Around” Five by Five, 1964
Una delle prime canzoni registrate da Jagger e Richards con il loro primo gruppo,i Blue Boys. Una cover di Chuck Berry che fa impazzire i fan dal vivo e fa conoscere la band all’America: quando la suonano all’Ed Sullivan Show, la loro sfrenatezza sconcerta il presentatore. Le ragazze invece capiscono.
69. “Jigsaw Puzzle” Beggars Banquet, 1968
Richards ha detto che ascoltare Bob Dylan è stato come «Prendere un pugno in faccia». Questo surreale pezzo country-rock è la cosa più alla Dylan mai fatta dagli Stones, con Jagger che ci guida attraverso una galleria di personaggi folli.
68. “Hand of Fate” Black and Blue, 1976
Registrata poco dopo l’uscita di Mick Taylor dalla band nel 1974, è il pezzo con cui viene fatta l’audizione al suo primo sostituto, Wayne Perkins. «C’era una luce puntata su di me», ha detto Perkins, «volevano vedere se avevo l’aspetto di uno dei Rolling Stones, e non avevo ancora suonato una nota!».
67. “I Am Waiting” Aftermath, 1966
Gli Stones in versione scintillante e barocca alla Lady Jane registrano a L.A. con Jack Nitzsche al clavicembalo. Quando la suonano allo show televisivo Ready Steady Go, con Keith all’acu- stica e Brian Jones con il dulcimer sulle gambe, dimostrano di essere una band che sta maturando in tempo reale.
66. “Sitting’ on a Fence” Flowers, 1967
Scritta in albergo durante il tour del 1965 in Irlanda, sembra uno scarto, ma invece è un manifesto: Jagger osserva i suoi amici diventare adulti, sposarsi e comprare casa, “perché non c’è altro da fare”, e decide di rimanere seduto su quella staccionata e continuare a fare la vita del single, almeno per ora.
65. “Heart of Stone” Out Of Our Heads, 1965
Nel 1964 gli Stones entrano nella Top 20 per la seconda volta (dopo Time Is on My Side) con una ballad firmata Jagger-Richards, in cui Mick mostra per la prima volta il suo lato maligno. In una delle prime versioni c’è anche un giovane Jimmy Page alla chitarra.
64. “Undercover of the Night” Undercover, 1983
Il suono sferragliante e il video diretto da Julien Temple non sono l’unica cosa che rende diverso questo pezzo. È anche il testo apertamente politico (Jagger canta: “Una diaspora di 100.000 persone / Persi nelle prigioni del Sud America”) e la produzione piena di eco,
che prende ispirazione dal dub.
63. “Goin’ Home” Aftermath, 1966
«Non potete tagliarla», dice Keith ai discografici a proposito di questo pezzo di 11 minuti, forse il più lungo mai messo su un album rock all’epoca. Un blues elettrico che diventa una jam bollente al minuto 3, con Mick che improvvisa in uno stile che perfezionerà in Midnight Rambler.
62. “Sister Morphine” Sticky Fingers, 1971
“Sono sdraiato nel mio letto d’ospedale”, canta Mick nella prima spaventosa strofa, prima che le oscure pennellate di Keith e la sinistra chitarra slide di Ry Cooder rendano il tutto ancora più splendidamente macabro. Si discute ancora oggi se Mick parli di Marianne Faithfull, al tempo la sua amante.
61. “You Got the Silver” Let It Bleed, 1969
«Uno dei primi pezzi che ho scritto interamente da solo», ha detto Keith. Country blues semplice e aspro, con la sua splendida chitarra acustica, l’organo di Nicky Hopkins e l’autoharp suonato di Brian Jones. È anche uno dei pochi momenti di calma in mezzo alle canzoni esagerate di Let It Bleed.