Thurston si accomoda al sole che filtra tra le piante della borghesissima corte del milanese Hotel Diana. Ha l’aria assonnata e gentile. Beve acqua, perché i caffè – dice – lo agitano parecchio. È uscito il suo nuovo disco solista, Rock and Roll Consciousness, un lavoro compato e diritto, che suona come uno dei migliori dischi dei Sonic Youth, ma senza i Sonic Youth.
È stato registrato a Londra, dove Thurston vive con la nuova compagna Eva Prinz da sei anni, ed è scritto con il Thurston Moore Group, Steve Shelley (batteria, già nei Sonic Youth), James Sedwards (chitarra) e Deb Googe, la bassista dei My Bloody Valentine’s. Tre teste che sembrano parlarsi e comunicare molto bene.
«Nell’ultimo album, The Best Day, non avevamo potuto suonare molto insieme prima della registrazione. Ma per questo lavoro volevo davvero che James e Deb potessero sbocciare, avessero pieno spazio nei pezzi. In particolare, non mi ero reso conto all’inizio di quanto ti può dare una lead guitar e volevo che il suono di James facesse un vero passo in avanti. Nei Sonic Youth, io e Lee Ranaldo non suonavamo in quel modo. Lee era un chitarrista molto capace e affermato fin dall’inizio, aveva molta esperienza, ma non faceva cose classiche alla Jane’s Addiction. E io a quel tempo a mala pena me la cavavo con i feedback!».
Se la ride sul feedback, e vai a sapere perché questa passione per il rumore non lo abbia spinto dritto all’elettronica, come è accaduto a molti della sua generazione. «Non mi interessa il noise per sé», dice, «mi interessa molto di più l’improvvisazione e il rapporto che si crea tra chitarra e amplificatore. La tecnologia è ancora lontana da me, ma non è in assoluto una questione di principio, c’entrano anche cose molto pratiche. Per esempio, vivo con la mia compagna in un appartamento piccolo con un divano, un letto e una piccola cucina. Non ho uno studio mio, e mi piacerebbe molto averne uno, un garage, un posto dove avere il tempo e lo spazio di sperimentare anche cose nuove».
Molti hanno descritto questo nuovo album come più profondo e oscuro degli altri da solista. «Forse è così», dice Thurston Moore, «forse volevo davvero scrivere musica che non aspirasse in alcun modo agli standard che il mercato considera necessari per il successo. Ho cercato di pensare al suono, non alla label, alla radio o alla televisione. Penso sia arrivata l’ora di fare della musica qualcosa che puoi suonare nei boschi».
Non che con i Sonic Youth avesse mai rincorso molto il mainstream, ma certo anche il fichettissimo sottobosco newyorkese degli amici di Glenn Branca, Lydia Lunch eccetera, l’occhiolino a un certo mercato lo strizzava eccome: «C’era sempre il senso di stare a scrivere musica sperimentale per ammiccare a un’audience più ampia. Forse i Sonic Youth sono riusciti a fare proprio questo: un’efficace sintesi tra rock tradizionale e i vari filoni sperimentali che circolavano».
Le cose sono cambiate e Moore non sembra un grande fan dell’indie contemporaneo. «Non c’è niente che non vada nelle band di oggi, forse sono solo io a essere semplicemente stanco di quel linguaggio e non mi diverto più così tanto ai concerti. Mi pare roba da ragazzi, io mi sento il vecchio che sta lì a corrucciare le sopracciglia e dice: “Ok, avete avuto i Pixies, i Dinosaurs Jr., i Sonic Youth e i Nirvana, ma andiamo avanti!”. Preferisco cercare nella musica d’avanguardia, ci trovo più ricchezza, più ispirazione».
Sarebbe sensato chiedersi cosa resti di ascoltabile su questa Terra, per uno come lui. Qualcosa di buono e di nuovo. «Se dovessi dire un titolo direi Black Power, dei Peace, una band dello Zambia degli anni ’70 a cui hanno ripubblicato il disco. È stata una scoperta magica e credo davvero che la migliore nuova musica sia la musica che è andata perduta. Ci sono dischi degli anni ’60 e ’70 che nessuno ha mai sentito e che sono senza tempo, visionari… Non si tratta di passione per il vintage, ma di cambiare il nostro rapporto con la cultura musicale e iniziare ad avere cura di tutte le esperienze che rischiano di andare perdute. Non è nostalgia, è una cultura elastica del tempo».
Suonare nei boschi è molto decelerazionista e pure la coscienza del rock&roll non scherza. «Mi piaceva l’idea della coscienza, perché è l’idea di essere consapevole degli aspetti spirituali della tua vita, la relazione che c’è tra il mondo fisico e quello metafisico e che si coglie attraverso la meditazione. Sono cinque anni che tengo il workshop estivo sulla scrittura alla Naropa University ed è una scuola a forte impostazione buddista, che dà molta importanza alla nozione di “crazy wisdom” di Chögyam Trungpa (il Rinpoche tibetano che nel 1974 ha fondato la Naropa, ndr). Ho una grande ammirazione per le tradizioni religiose, anche se ho sempre pensato che il mio posto era fuori da lì. Rifiuto quel senso di autorità e non mi trovo con l’idea sociale dei “maestri”. Nei miei workshop cerco di diffondere questa idea, non voglio incarnare alcuna autorità, voglio solo portare le mie esperienze come strumento per la saggezza altrui».
Non è un fan della coscienza collettiva alla Lynch, niente respiro dell’universo, niente trascendenza. «Ho meditato in passato e ancora lo faccio, ma in modo informale, camminando per i fatti miei, tra i libri in un bookstore, tra pile di dischi. Il disco si chiama Rock n Roll Consciousness perché forse, se c’è qualche cosa a cui dare una risposta, è il senso di questo infinito amore per il rock&roll».