L’estate concertistica italiana si chiude con la tre giorni di TOdays, festival che ha preso sia l’eredità di sPAZIALE Festival, sia la responsabilità di tenere Torino nella contemporaneità e sulla mappa delle città con qualcosa da dire e da offrire musicalmente. Il tentativo di unire un’ambizione di tipo internazionale e la necessità di rivalutare un territorio come quello di Barriera di Milano – una di quelle periferie terreno di scontro della recente campagna elettorale – porta il festival a valorizzare diverse location sulla stessa bisettrice: lo sPAZIO 211, la rinnovata Fabbrica Incet (del resto, a Torino quello che non ci manca sono le fabbriche da riadattare), il Museo Ettore Fico e il Parco Peccei. Tutti nel giro di qualche metro a urlare che le periferie non sono solo centri commerciali. Contando la massiccia presenza di ragazzi con barba e occhiali che scendono da auto in car sharing, ce l’hanno fatta. Speriamo si possa ripetere.
Il primo giorno si sviluppa sulle diverse variazioni dell’elettronica. Osservi lo spazio del concerto riempirsi sulle note introduttive di Pugile e Niagara, orgogli locali. Iosonouncane si presenta in full band cercando di dare una forma epica agli acclamati brani di Die (ma non sempre ci riesce, ogni tanto ne esce fuori un pastone indistinguibile). Poi arrivano gli M83, luci(ne) e ombre. I francesi confermano di aver pubblicato l’ultimo Junk come scusa per andare in concerto. Attaccano con Reunion e sostanzialmente usano ogni pezzo come una transizione verso l’ennesimo – ovvio – ripescaggio da quel capolavoro di Hurry Up We’re Dreaming. Anthony Gonzales è consapevole di avere davanti a lui una platea di appassionati che aspetta principalmente l’attacco di Midnight City. I problemi però sono altri. La band suona come se avesse ancora l’incertezza su cosa fare da grande: facciamo gli zarri elettronici in cassa dritta o teniamo l’anima eterea del nostro shoegaze sognante? Dal vivo devi prendere una decisione e alla fine il concerto suona come un riscaldamento al concerto vero e proprio. Comincia incerto, procede con alti e bassi, finisce in crescendo con il tiro giusto e l’attitudine giusta. Quando sta per esplodere tutto, poi, giù dal palco e nessun bis. Ci si guarda perplessi: Ma come? Di già?
Ci spostiamo all’Incet per il concerto di John Carpenter, aperto dalle peripezie atmosferiche dell’altro orgoglio locale Paolo Spaccamonti. L’ex fabbrica è il teatro perfetto per le colonne sonore di uno dei registi che più hanno formato l’immaginario collettivo del contemporaneo post-industriale. Carpenter, poi, con Torino ha un rapporto particolare. Nel 1999 il Torino Film Festival gli tributò una retrospettiva elevandolo definitivamente al rango di “autore”. Inoltre, Torino e l’horror sono sempre stati soggetti contigui (suonare Dario Argento, citato da Carpenter) e il pubblico lo accoglie con l’ovazione che merita. Mentre suona sostanzialmente le solite tre note messe benissimo capisco qual è il punto: il trionfo del postmoderno. Fuori tempo massimo, ma il trionfo. John Carpenter ha passato la vita a fare tutti i film che ha voluto, quasi sempre come ha voluto e con chi ha voluto. Adesso gira il mondo chiamato da orde adoranti di fan per suonare le colonne sonore dei suoi film che si è composto da solo. Spettacolare. Non esiste nessuno al mondo che si diverte più di John Carpenter. Si vede, ed è contagioso. Citazionismo, presenza scenica, movie nerd e tamarro (ci sono due chitarre di un anni Ottanta folle sul palco) al punto giusto. E alla fine ha tutto senso. Peccato solo essersi persi il live di Calcutta al museo Ettore Fico, andato sold-out data la capienza limitata.