Si spengono le luci. Questa edizione del ToDays ha dimostrato come sia possibile, anche in una condizione di emergenza permanente come quella di chi vuole fare “cultura alternativa” (apriamo il più possibile il signifcato di queste parole, please) in Italia, costruire una manifestazione che abbia un significato e una prospettiva che vada oltre il semplice evento. Apre la giornata al parco Peccei il reading da Viaggio al termine della notte di Céline che Elio Germano e Teho Teardo portano in giro già da diverso tempo. Io purtroppo non riesco ad esserci per #cosedilavoro che non importano a nessuno, ma le cronache dei presenti parlano di momento molto emozionante e toccante.
I concerti della giornata finale si tengono tutti allo sPAZIO211. Dopo Victor Kwality salgono sul palco gli idoli incontrastati della festa, i Brian Jonestown Massacre. Anton Newcombe e soci fanno sostanzialmente una cosa sola e la fanno meglio di tutti gli altri e con un’attitudine unica. Si potrebbe fare molta ironia sull’essere “fuori dal tempo”, in una dimensione parallela da acid trip permanente e su questo revival neo-psichedelico sempre uguale a se stesso. La realtà, però, è che questa identità è davvero qualcosa di percepibile e speciale: è tutto un “sistema di vita” che si traduce nelle basette enormi, in Joel Gion che come al solito sta fermo in mezzo al palco a suonare il tamburello, passando per i dettagli che possono essere solo “Brian Jonestown Massacre” come il roadie che sta tutto il tempo sul palco, immobile, seduto, con quell’aria da Hunter Thompson pronto ad esplodere ma che non esplode mai. Tutta la droga che possiamo farci in una vita media, loro se la fanno in una giornata. E la reggono meglio di noi.
Il concerto dei Local Natives invece passa come acqua fresca. Questo pop “carino” erede diretto dei Grizzly Bear di Veckatimest sembra ormai non avere più niente da dire. Loro, poi, non hanno mai svettato per personalità e carisma. Inoltre, quando una band che non ha già tante frecce al proprio arco per fare qualcosa di nuovo mette dentro due tastierini, vuol dire che si sta raschiando il fondo del barile. Salvano il set con due minuti di rumore bianco alla fine, ma francamente sembra un po’ pochino.
Il mio personale conflitto interiore arriva con il concerto dei Crystal Fighters. Loro sono fastidiosissimi. Fanno una musica caciarona e stupidissima: elettronica tamarra da festa Erasmus “intelligente” periodo 2007-2010 (del resto, sono quelli di I Love London). Sono conciati e si muovono sul palco come una di quelle sette che a fine rito propongono il suicidio collettivo. Fanno cagare come poche altre cose che abbia mai sentito, ma hanno straordinariamente senso. Fanno divertire e ballare tutti. Anche i sassi, anche i bicchieri di plastica gettati per terra, anche due nonne che sembrano lì ad accompagnare i nipoti e invece sono lì PER LORO (ho una foto, ma non mi sembra il caso). Ma cosa diavolo sta succedendo? Sono maledettamente BRAVI. Sembra una catarsi, o qualcosa del genere. Forse è davvero colpa della deriva post-ideologica della società contemporanea. Forse è colpa degli Erasmus a Londra o Barcellona. Ho girato per il main stage cercando di capire. Forse, come mi disse un amico citando un cantautore d’altri tempi, semplicemente, non c’è niente da capire.
Chiudono in gloria i Goat. Psichedelia. Svezia. Maschere tribali. Evocazioni mistiche. Black Sabbath. Un tizio coi bonghi. Le cantanti che sembrano sacerdotesse che si muovono, ballano, urlano, lanciano le loro preghiere. Sempre pazzeschi. Sempre potentissimi. Anche loro in grado di far ballare tutti, ma in modo diverso. Sempre il giusto finale per il festival di una città, Torino, che sulla musica psichedelica ha sempre dimostrato una reattività importante. Si spengono le luci. Arrivederci all’anno prossimo.