Il disegno di una cameretta in Irlanda negli anni ’70 e le immagini di una Siria distrutta: il passato e il presente che si interroga sul futuro. Il concerto degli U2 di ieri sera a Torino che ha aperto la tranche europea dell’Innocence + Experience tour è stato epico. Epico, non (o non soltanto) nel senso di figo, come si usa spesso oggi questo aggettivo, ma nel senso che è stato un grande racconto narrativo di una band enorme. E anche un racconto collettivo che comprende tutti noi.
Poi è stato anche figo, perché Bono, che sfoggiava senza problemi i suoi capelli color giallo-improbabile, era in gran forma. The Edge, Larry e Adam pure. Il suono era ottimo, i decibel alti, la scenografia stupefacente senza essere pacchiana, e dal punto di vista tecnico è stato tutto ineccepibile.
Risolti i problemi del Mac Book rubato all’ingegnere dello staff (con alcune immagini che dovevano essere proiettate durante il concerto), che aveva fatto notizia nel pomeriggio, Bono sale sul palco presto, come nelle precedenti date americane, alle 20.30. Accolti, come al solito, come divinità e al grido del cantante «Ecco la band dal suono migliore del mondo», gli U2 partono subito con una canzone che mischia bene presente e passato: The Miracle (of Joey Ramone). Il primo singolo dell’ultimo album e un evidente tributo ai Ramones, gruppo che ispirò la band di Dublino.
Infilano una tripletta come Electric Co., Vertigo e I Will Follow e poi Iris, altro pezzo recente, tratto da Songs of Innocence e omaggio al passato, in questo caso, al ricordo della madre. Qui si accende la struttura con mega-schermo e passerella inclusa, dove vengono proiettati i visuals e dove la band sale, in diversi momenti dello show, circondata completamente dal pubblico.
Il video di Iris è il primo, fortemente nostalgico, a lasciare senza parole, con l’immagine in loop di una giovane donna (la madre di Bono) che corre. Poi arriva Cedarwood Road, dedicata alla via dove Bono è cresciuto. Si vedono i disegni delle case irlandesi di quella strada, ed è come se ci si potesse entrare dentro, con le foto del gruppo negli anni ’80 alternate ai poster dei loro idoli di quegli anni, i Sex Pistols e i The Clash. O a foto di persone che per loro rimangono fondamentali, come quella di Gavin Friday, fondatore dei Virgin Prunes, band irlandese post-punk che fu per loro di grande ispirazione e che ancora oggi ha un ruolo di primo piano nell’ideazione dello show degli U2.
Ma non è solo un racconto personale quello che si può vedere e ascoltare nella prima parte del concerto. Arriva ben presto uno dei pezzi più belli mai scritti da Bono, Sunday Bloody Sunday, in versione piuttosto minimale, dedicata alla loro Irlanda, alla sua storia drammatica, e in particolare a quella domenica del 30 gennaio 1972 in cui a Londonderry persero la vita 14 irlandesi disarmati. “Per non dimenticare”, recita la scritta che accompagna le foto dei civili morti in quegli anni di sanguinosi scontri tra Regno Unito e Irlanda, mentre gli U2 cantano Raised by Wolves.
Una sorta di intervallo, con un remix di The Fly, segna la fine tra la prima parte dello show, dedicata soprattutto al passato, e la seconda che guarda più al presente e ai giorni nostri.
I pezzoni che si alternano sono tanti: da Even Better Than The Real Thing a Mysterious Ways, da With Or Without You a Pride (In The Name of Love) e Where The Streets Have No Name. Con Elevation arriva il classico momento in cui Bono invita la sua prescelta sul palco e, particolarità di questo tour, le affida anche un cellulare con cui riprendere in diretta su Meerkat lo show.
La novità della scaletta europea (sempre che venga rispettata anche nelle altre date) è soprattutto Zooropa dal vivo e, ovviamente, una riflessione sui temi dell’immigrazione. Nei giorni in cui si discute se sia giusto far vedere o meno la foto del corpicino di Aylan, il bimbo di Kobane ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, si vedono passare sul mega-schermo le immagini delle strade siriane completamente distrutte, che la band di Bono aveva già mostrato nei live americani.
«Non so che cosa si debba fare di fronte a questa enorme emergenza umanitaria e di fronte a queste migrazioni», racconta Bono sfidando il forte rischio della retorica. «Noi musicisti non possiamo fare niente, possiamo solo fare pressioni sui politici. E poi, fino a qualche anno fa non pensavamo fosse possibile che nascessero dei bambini in Africa senza il virus dell’HIV, invece oggi siamo riusciti a ridurne drasticamente il numero». Su Where The Street Have No Name in molti mostrano il cellulare con sfondo rosso e due parentesi bianche, il simbolo di (Red), la Ong voluta da Bono. Poi il cantante cita l’amico Nelson Mandela: «Rendete il futuro un posto migliore. Mettetevi in gioco, siate viaggiatori». Per concludere con la scritta sul megaschermo #RefugeesWelcome.
Il finale musicale, invece, è affidato ovviamente a One e a quel riff di chitarra di The Edge che, leggenda vuole, a inizio anni ’90 ridiede la carica al gruppo in piena crisi creativa. Nessuno dei pezzi dell’ultimo album è paragonabile a quella genialità, ma gli U2 hanno ancora molto da dire. Anzi, da raccontare a tutti.
Stasera si replica, sempre al PalaAlpitour (esaurito nel giro di qualche ora dall’apertura delle prevendite), mentre domani Bono è atteso a Milano per un incontro all’Expo a sostegno del World Food Programme.