L’impressione è quella di entrare in un’altra dimensione, o in una comunità di adepti. C’è il parco dell’Idroscalo di Milano, gli alberi sparsi sotto la pioggia, il tendone nero del Magnolia e poi ci sono loro, i Motorpsycho, che ti aspettano dentro, arpeggiano delicati nel buio, poi accendono le lampade calde che hanno piazzato dietro alle loro spalle sul palco ed esplodono in un flusso elettrico che sembra non finire mai.
Solenni, maestosi, a volte sublimi e a volte atroci, sorridenti come dei vecchi amiconi rockettari e un attimo dopo incomprensibili e lontani, impegnati in un progetto di espansione infinita dei suoni. It’s a Love Cult, come hanno detto loro stessi nel titolo del loro album del 2002 (quello che segue la svolta jazz-rock del fondamentale Phanerothyme del 2001). È un culto, prendere o lasciare.
Il primo pezzo della scaletta, Big Black Dog dura quattordici minuti, tanto per farti capire a cosa stai andando incontro. Il secondo, Un Chien d’Espace, ne dura diciotto, inizia delicato e poi sale in un crescendo dal nulla a tutto, fino alla saturazione totale: doppia cassa di batteria, vibrazioni di synth, scale di basso e chitarra sempre più veloci.
I Motorpsycho sono atterrati da Trondheim sul palco del Magnolia per presentare il loro ultimo album Here Be Monsters (che esce due anni dopo il travolgente Behind the Sun) scritto su commissione per le celebrazioni dei cento anni di attività del Museo della Tecnologia Norvegese. Martedì 10 maggio saranno a Roma all’Init Club e mercoledì 11 a Bologna al Teatro Polivalente Occupato.
Viene da chiedersi quale sia l’idea di musica di Hans Magnus Ryan, Bent Saether e del fenomenale batterista Kenneth Kapstad. È musica fisica, con una dimensione reale, pesante. È un flusso che non accetta alcun tipo di limitazione, che sia quella della forma canzone, della durata o della stessa capacità dell’ascoltatore di capirlo. Tra il pubblico del Magnolia ognuno dice la sua: «Cercano solo la contromelodia», «È un genere musicale tutto loro, l’eclectic-prog», «Sono tutto e il contrario di tutto». Appena provi ad afferrarli loro sono già da un’altra parte: dopo un’ora di suite strumentali lisergiche e cavalcate impenetrabili si scaldano e virano sull’heavy metal puro, passano dal prog schizzato di Cloudwalker alla purezza acustica di Feel (da Timothy’s Monster del lontano 1994) al rock dritto dei brani dall’album Heavy Metal Fruit poi tornano alla melodia sospesa e ai muri di armonie alla Pink Floyd di Lacuna/Sunrise, uno dei brani migliori del nuovo album e chiudono con un pezzo come come dice Bent: «Era troppo lungo per stare sull’album» e infatti dura più o meno venti minuti. Il trio norvegese si avvicina ai trenta anni di carriera, ha pubblicato decine tra Lp ed Ep e ha esplorato praticamente ogni genere musicale esistente nel pianeta. Essere eclettici per loro vuole dire essere incontenibili.
I Motorpsycho sono una turbina che trita tutta la musica che conosci e te la ributta fuori amplificata. Nel flusso trovi sempre qualcosa che ti piace, prima o poi. Loro continuano ad alimentarlo per tre ore, espandendo ogni cosa a dismisura e sembrano dirti con quell’aria da simpatici metallari del Nord: se non hai voglia di entrarci dentro cosa sei venuto a fare?