La voce emerge dalle casse di un laptop come quella di un fantasma stiloso: l’inconfondibile timbro asciutto e monocorde di Lou Reed, accompagnato da una semplice chitarra acustica, canta di una guerra ingiusta e di corpi ammassati. Si tratta di qualcosa di prodigioso per lo stile della leggenda del rock alternativo: una protest ballad alla maniera di Bob Dylan, recuperata da una serie di cassette di demo registrate nel 1971, quando Reed – sospeso tra l’abbandono della sua band, i Velvet Underground, e l’inizio della sua carriera solista – viveva in esilio nella casa dei genitori a Long Island. Lou Reed, morto nel 2013, non ha mai pubblicato né inciso il brano. Ma ne ha salvato il ritornello, apparso nel 1974 in Kill Your Sons, brano estratto da Sally Can’t Dance, ricordo esasperato dell’inferno dell’elettroshock vissuto in adolescenza.
«Si fidava delle cassette», dice la moglie di Lou Reed, l’artista Laurie Anderson, mentre ascolta la registrazione nel suo studio a Manhattan. La cassetta originale è su un tavolo accanto alla donna, vicino al laptop e a una scatola di altre registrazioni vintage, complete di etichette scritte a mano, di titoli tentatori: un concerto a Cleveland nel 1986, uno in una stazione radio di Long Island nel ’72, a cavallo della pubblicazione del rivoluzionario Transformer; altre demo soliste del 1974, tra cui alcune improvvisazioni sui brani più famosi del Velvet.
«Lou scriveva tutto nella sua testa», continua la Anderson con il suo timbro dolce e sorpreso, mentre Some Kinda Love e Candy Says continuano a suonare dalla stessa cassetta di prima. «Questa era la cosa più strana. A volte si alzava dal letto e la canzone era già pronta. Magari ci lavorava nel tempo, aggiungendo una piccola frase per volta». La donna cita un verso estratto da Set the Twilight Reeling, l’album pubblicato nel 1996: «Light glances off the blue glass / Right before the windows». «Mi veniva da pensare “oh, ha detto questa frase due settimane fa”. Riuscivo a capire quando qualcosa sarebbe finito in un brano».
Queste cassette e le storie che raccontano – sulle radici e sulle influenze di Lou Reed, sul suo processo di scrittura, sulla storia dei suoi concerti, dei suoi trionfi sia con i Velvet che attraverso la trentina di dischi in studio e dal vivo che ha pubblicato – sono ora parte del regalo che il provocatore rock & roll di Brooklyn ha fatto alla sua città natale. Oggi, il settantacinquesimo compleanno di Lou Reed, Anderson e la New York Public Library for the Performing Arts, al Lincoln Center, hanno annunciato l’acquisizione dell’archivio dell’artista. Include circa 100 metri di lettere, documenti di lavoro e fotografie; più di 600 ore di cassette tra concerti, demo, interviste e registrazioni in studio; 1,300 registrazioni video e un gigantesco memorabilia personale, tra cui la sua collezione di vinili.
Ecco alcune delle perle rivelate durante l’esclusiva preview fatta per Rolling Stone una settimana prima dell’annuncio: una cassetta originale dell’ultimo concerto di Reed con i Velvet, al Kansas City di Max, New York; alcune memo di RCA Records riguardanti il ruolo di David Bowie – e il suo pagamento – come produttore di Transformer; un’agenda telefonica con i numeri di Allen Ginsberg, Peter Gabriel, Brian Eno e alcuni ristoranti on the road; itinerari dettagliati e ricevute provenienti dal famoso tour di fine anni ’70. Una registrazione, mai aperta, di maggio 1965, forse la prima demo in assoluto dei Velvet, registrata da Pickwick Records, dove Reed lavorava come staff songwriter.
L’archivio sarà disponibile al pubblico, ai ricercatori e agli studiosi. Una selezione del materiale sarà esposta a partire dal 20 marzo nel Lincoln Center e nell’edificio principale della NYPL sulla Fifth Avenue. La Library, inoltre, ha organizzato una performance gratuita, che si terrà il 13 Marzo e sarà curata dal suo produttore Hal Willner, del concept album The Raven, che si terrà insieme a Drones, l’installazione di guitar feedback di Lou Reed.
«Questa è una delle cose che Laurie voleva fare sin dall’inizio – voleva che tutto fosse il più aperto possibile», dice Don Fleming, un’archivista di Alan Lomax e Hunter S.Thompson che ha lavorato alla catalogazione del materiale con la Anderson negli ultimi tre anni. «Una delle cose più interessanti di questa iniziativa è che riguarda un’artista di una major, possiamo vedere tutto il carteggio che gira intorno a questo tipo di figura – tutta la sua vita, mostrata giorno per giorno». Fleming, produttore e chitarrista alternative-rock di band come i Velvet Monkeys e i Gumball, specifica che ci sono “numerosi documenti” che chiedono a Reed di «dire si o no ad alcune proposte di lavoro, lui rispondeva semplicemente “No”. Doveva fare questo tipo di scelte. Faceva parte della sua routine quotidiana».
Parlando con la Anderson nel suo studio due settimane prima dell’annuncio, abbiamo capito che per lei la cosa più importante dell’archivio è la “sua curiosità”: «Era continuamente alla ricerca di cose nuove. Lo puoi vedere in ogni cosa, in ogni nuova band che ha formato, in tutto. Lui diceva sempre “Let’s move on“».
Reed era “un grande avventuriero”, dice la donna mentre Fleming armeggia con il laptop per suonare altre demo del ’71 e del ’74. «Non aveva mai paura. Non voleva compiacere nessuno. Non c’è più nessuno così al giorno d’oggi. Oggi siamo tutti impegnati a dire “Beh, ti va bene così?” A lui non importava. Lui aveva solo la necessità di fare quello in cui credeva. È una cosa che percepisci in ogni cosa dell’archivio».
Una mattina, nell’edificio della NYPL a Long Island dedicato alle Book Operations, Jonathan Hiam – curatore dell’American Music Collection e dei Rodgers and Hammerstein Archives of Recorded Sound – mi ha guidato in tour personale attraverso gli scatoloni di Lou Reed. Si tratta di una piccola parte dell’archivio completo, ancora in corso di catalogazione.
«Si tratta di una cosa molto densa», ammette Hiam mentre apre una scatola piena di buste impilate, assegni annullati, fatture d’albergo e note di pagamento per i turnisti di Reed. Un frammento di un documento dice “Rimborsare Doug Youle, ho le ricevute, $32,61”. Yule, che aveva rimpiazzato il vecchio bassista dei Velvet, John Cale, ha suonato con Reed per tutti i tour degli anni ’70. Un’altra scatola contiene resoconti dettagliati delle edizioni dei dischi dei Velvet. Ad un certo punto della sua carriera, nel 1971, Lou Reed guadagnava $907.04 per le vendite di White Light /White Heat, il disco del 1968 dei The Velvet Underground and Nico, una quantità di denaro che gli ha permesso di sopravvivere in un momento in cui, fuori dai Velvet, non aveva un contratto discografico e stava ancora scrivendo le canzoni che sarebbero poi apparse sul suo primo disco solista.
«Questo è il sostentamento degli artisti», continua Hiam, «ed è una delle cose che rendono questo archivio così interessante. Si tratta di Lou Reed, certo. Lui era un’artista al centro di tutti i cambiamenti e le svolte della musica pop. Attraverso l’archivio puoi vedere il suo impegno, il suo ruolo nell’industria. Non pensava solo ai suoi dischi».
Dall’archivio vengono fuori sorprese in ogni momento. Un walkman Sony leggermente arruginito si rivela essere un’edizione limitata, offerta a Lou Reed dall’azienda con una custodia d’argento firmata Tiffany. Una ristampa del singolo dei Byrds del 1966, la canzone raga-jazz Eight Miles High, con una dedica scritta a mano: “Pensavo che avresti gradito un po’ di Coltrane”. Firmato “Jimmy Page” – uno dei primi fan di Lou Reed che, quando si esibiva con gli Yardbird nel 1968, suonava una cover dei Velvet, I’m Waiting for the Man. Questi piacevoli shock continuano uno dopo l’altro, anche per Hiam. Mi racconta di quando, guardando insieme a Fleming in un raccoglitore di documenti di lavoro, si è trovato davanti una Polaroid di Andy Warhol, il primo manager dei Velvet. «Stavamo guardando dentro un magazzino pieno di scatoloni, nessuno sapeva cosa ci fosse dentro», dice Fleming, che ha lavorato all’archivio su richiesta della Anderson poco dopo la morte dell’artista nell’ottobre 2013. «Dopo circa 50 scatole abbiamo iniziato a trovare materiale più consistente: “Ecco i raccoglitori con tutta la stampa dedicata ai suoi album e tour”. Mi ha sconvolto scoprire tutto il materiale raccolto durante gli anni dei tour. Riuscivamo a vedere tantissimo della sua vita da performer: le registrazioni audio, gli appunti, i poster. Questo materiale rende l’archivio così appetibile per la Performing Arts Library».
Fleming e Anderson si sono rivolti anche ad altre istituzioni, tra cui l’Università del Texas e l’alma mater di Reed, l’Università di Syracuse. «Ci siamo resi conto che sarebbe stato meglio fare tutto a New York», ha aggiunto Fleming. «Anderson voleva che fosse accessibile a tutti».
«Inizialmente volevo che fosse gratis e online», aggiunge la Anderson con un sorriso felice, poi ride. «Ho realizzato che ci sarebbe voluto parecchio lavoro. Ma non ho mai voluto che questo materiale finisse sepolto in qualche posto irraggiungibile. Volevo che le persone ne usufruissero. Lui, poi, era così generoso con il suo lavoro».
Reed, prima di morire, non aveva preso alcun accordo a proposito del suo archivio. «Non era tipo da testamenti», dichiara la Anderson. «A lui interessava solo “prendi quella nuova chitarra, quel nuovo pedale. Butta via quella robaccia”». (Il materiale acquisito dalla NYPL non comprende né le chitarre né l’attrezzatura da studio di incisione di Reed; Fleming e Anderson stanno considerando altre opzioni per quel materiale.)
«Non ero preparata a gestire tutto questo lavoro», ammette la Anderson. «Inizialmente pensavo fosse più una questione di ordine. Poi ho realizzato quanto profondo fosse tutto questo». «Abbiamo superato un certo punto della Storia», aggiunge Hiam, riferendosi ad acquisizioni simili avvenute di recente – le carte di Bob Dylan acquisite dall’Università di Tulsa, in Oklahoma; gli archivi di Bruce Springsteen al Center for American Music, all’Università di Monmouth in New Jersey. «Siamo arrivati ad un punto in cui abbiamo grandi creativi con grandi raccolte di materiale che ha un valore superiore a quello della semplice ricerca e documentazione».
«La cosa unica di questo archivio è che, a differenza di quanto avviene in un museo, puoi maneggiare tutti i documenti,», dice Hiam del lavoro della NYPL. «Dobbiamo proteggere il materiale, quindi abbiamo cercato di trovare un’equilibrio. Ma devi poter scavare tra tutta questa roba».
Mentre la nostra preview a Long Island City stava per finire, Hiam ha tirato fuori un raccoglitore pieno di altri documenti. Tra questi sono apparsi una serie di contratti importantissimi: l’assunzione del manager dei Velvet, Steve Sesnick, del Settembre 1969. Il contrato è firmato da tutti e quattro i membri: Reed, Yule, il chitarrista Sterling Morrison e la batterista Maureen Tucker. Nella stessa scatola, proprio sotto il contratto, c’è una copia di un accordo legale dell’anno successivo – 1 Novembre 1970, due mesi dopo che Lou Reed abbandonò il gruppo.
Spedita da Sesnick al cantante presso la casa dei suoi genitori, la lettera tratta la questione dell’abbandono della band in modo piuttosto brusco: «Con la presente riconosci di aver abbandonato la band […] volontariamente. Acconsenti, inoltre, a non utilizzare il nome Velvet Underground in nessuna occasione, in nessuna attività performativa in cui sarai coinvolto a partire dalla data scritta in questo documento». L’anno successivo, Dicembre 1971, Lou Reed avrebbe registrato a Londra il suo disco solista d’esordio, intitolato proprio Lou Reed. In quel periodo iniziò anche la sua amicizia con David Bowie.
«Questi sono i tesori di un archivio», dichiara la Anderson. «Puoi fare un passo indietro a guardare all’intera vita di una persona e ti rendi conto, “Quella volta ha fatto così, e poi ha fatto questo”. Riesci a vedere le cose in prospettiva. È un’esperienza così eccitante, vedere quello che ha fatto da angolazioni così diverse». «Si tratta di un vero tesoro per la gente», dice la donna dell’archivio di Lou Reed e del posto dove sarà ospitato, «e sono davvero contenta che siano riusciti a sfruttarlo».