Alla fine Vasco è tornato dove è partito. Rock grezzo, ruvido come quello che si faceva nelle cantine di provincia. E ballate d’amore disilluso come quelle che lo hanno trasformato in un fuoriclasse nel senso che non hanno ancora inventato una classe per lui.
Perciò, come recita da bravo ragazzo sulla copertina del nuovo disco, da sempre Sono innocente, insomma non ha responsabilità, gioca una partita tutta sua senza allievi né tantomeno maestri. Quando ha presentato le nuove canzoni al Medimex, la fiera dell’innovazione musicale che da qualche anno riempie Bari e metà autunno, Vasco aveva le rughe di un 62enne (ha dieci anni esatti più di Axl Rose ma almeno 30 chili in meno) e la stessa illogica semplicità di quando cantava nelle balere senza che nessuno se lo filasse.
È tornato lì, come spirito e magari per mancanza d’altra ispirazione, e non a caso il nuovo disco ha chitarroni e batteria quasi nu metal, molto Korn, molto Pantera (talvolta), spesso nostalgicamente vicini alla new wave of british heavy metal di inizio anni ottanta. Ad esempio Def Leppard e, toh!, Judas Priest, gli stessi ai quali chiese in prestito il riff di Living after midnight per Dimentichiamoci questa città (da Siamo solo noi 1981). Idem per le ballate, che si arrampicano ancora sulla stessa impalcatura di piano e chitarre velate, gli stessi arpeggi fumosi quasi come se trent’anni fossero trascorsi solo per gli altri. Lui li ha trascorsi facendo di tutto e (talvolta) il suo contrario, ritirandosi da rockstar ma rimanendo forse l’unica vera rockstar italiana non soltanto sul palco degli stadi ma pure nella vita privata, nelle sue solitudini, nelle sue decisioni enormi (non è stato facile tornare in tour alla fine della malattia) e in quelle minuscole di vita quotidiana (si è comprato due meravigliosi attici a Bologna dai quali può guardare la città dall’alto).
Perciò il disco, che ovviamente ha debuttato in cima alla classifica, è soltanto un piccolo appunto sul suo sterminato bloc notes esistenziale nel quale forse la prima frase può essere quella detta quasi a bruciapelo sul palco a Bari: «Quando c’è l’onestà, posso anche fregarmene dell’innocenza». Volenti o nolenti, Vasco è sempre stato onesto, magari sbagliando («Però noi usavano gli acidi, non ci facevano usare dagli acidi», come ha ripetuto poche settimane fa anche a Sky Arte) e magari continuando a restare legato a un’iconografia rock ormai persino troppo vintage (i megapalchi, il “komandante” eccetera).
Però, a differenza di come lo ha definito Andrea Scanzi qualche anno fa, non è mai diventato un “tacchinone” autoreferenziale e pasciuto. Anzi, continua a essere angosciato, a essere sereno solo a tratti, ad avere quel mal di vivere «che conosco bene e che incontro molto spesso». È rimasto, nella sua disarmante semplicità, uno con i sogni in tasca e la sua tasca è quella di una giacca di pelle con i gomiti lisi. Non a caso, nella prima, aggressiva canzone del disco, urla minaccioso di “fare una prova” per vedere se “cadi come un pollo o resti in piedi come Rocky” (Sono innocente ma…). Lui, e lo ripete anche adesso, è rimasto in piedi quasi sempre “ma quando sono caduto non l’ho fatto come un pollo”.
Insomma chitarre, amore, ring, sfide lanciate al mondo ma raccolte soltanto da se stesso: Vasco è tornato dove era partito. Solo che adesso se ne frega di tutto, sì, ma riesce a non andare oltre.