«Vinyl is not dead», il vinile non è morto. Il mantra che accompagna la lenta ma costante risalita del vinile, questa volta, è più indovinato del solito.
Dati alla mano: l’LP di The Endless River, il nuovo e controverso album dei Pink Floyd, ha venduto 6.000 copie nella prima settimana di vendita nel Regno Unito. Era dal ’97 che non succedeva.
Anche dall’Italia arrivano dati confortanti. Nei primi nove mesi del 2014 c’è stato un aumento del 66 per cento delle vendite rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso che, a sua volta, aveva segnato un incremento del 26 per cento sul 2012. La fetta di mercato ora vale 2.100.000 euro contro i 1.260.000 del 2013. Un bel passo avanti.
Ok. Sono numeri che nel 1970 avrebbero fatto ridere i polli. Nel 2014, no. Anche se i fan dei Pink Floyd sono nostalgici e abituati a comprare a scatola chiusa dischi. E, magari possessori di Hi-Fi e giradischi d’alta gamma.
Ma il punto è un altro. Il successo di Gilmour e soci, dedicato alla memoria del tastierista Richard Wright, si accoda a un’altra notizia, più rilevante. Fonti ufficiali parlano chiaro: la nicchia del supporto fonografico più cool e amato, che a un certo punto quasi si dava per spacciata, si allarga ancora e supera il tetto psicologico del milione di dischi venduti in Inghilterra.
Solo cinque anni fa il mercato dei vinili in Gran Bretagna valeva 3 milioni di sterline all’anno. Nel 2014 sta per toccare i 20 milioni.
Il comparto, come ha dichiarato alla BBC, Gennaro Castaldo, dell’associazione discografica britannica (BPI), potrebbe vendere, grazie alle vendite natalizie, circa 1.200.000 dischi.
Vinyl is not dead, appunto. Ma a ben vedere il vinile non era mai morto. Semmai è sempre stato malato, nell’immaginario.
Allora cosa sta cambiando? The Official Chart Company, l’ente che in Inghilterra pubblica i dati sulle vendite musicali, svela la prima grossa novità: presto introdurrà la classifica settimanale degli LP.
Chissà chi vincerà, alla fine, la top 20 definitiva del 2014. Nei primi quattro mesi dell’anno, in questa classifica “prove di trasmissione” della Official Charts Company, a svettare c’erano gli Arctic Monkeys con AM, tallonati dai Mogwai di Rave Tapes.
Ora le carte in tavola si sono rimischiate e di mezzo c’è Santa Claus. Non era ancora uscito Lazzaretto di Jack White che a due mesi dell’uscita era il disco che aveva venduto di più negli ultimi 20 anni con 60.000 copie. Non c’era The Endless River che potenzialmente potrebbe essere il 33 pollici da “piazzare” sotto l’albero.
«È veramente fantastico che, in un’epoca in cui tutti parliamo di musica digitale, questi eccezionali supporti fisici siano ancora popolari».
«Solo cinque anni fa, prosegue il direttore generale dell’OCC, Martin Talbot, il mercato dei vinili valeva 3 milioni di sterline annui. In questi dodici mesi sta per toccare i 20 milioni».
Le interviste fatte in strada, fuori dal negozio Rough Trade di Brick Lane, nella parte est della capitale inglese, individuano una netta distinzione fra chi compra dischi perché nostalgico e chi, invece, lo fa perché è l’alternativa “calda” alla musica ascoltata in streaming – «roba da hipster», chiosa la BBC.
Mentre i fan degli One Direction o gruppi simili, quelli dello streaming senza fine, hanno una fan base digitale e non spenderebbero mai 25 sterline per comprare un disco. La lamentela sui prezzi arriva proprio dal co-founder della catena Rough Trade, Nigel House che pone l’accento su i prezzi imposti dalle major figli di uno scenario modaiolo: «Per me è davvero un cattivo segnale».
«Well they say “Brian is back”, but in my heart he’s always been around» (dicono “Brian è tornato”, ma dal mio cuore non se n’era mai andato) cantavano i Beach Boys, celebrando il ritorno del band leader sulla scena a metà degli anni ’70. Non la pensava allo stesso modo l’industria musicale: «Mentre la candela vacillava e si stava quasi per spegnere, la maggior parte di noi – dice Castaldo – aveva rottamato i vinili. Ma la fiamma non si è mai davvero spenta».
E chissà come cambierà nei prossimi anni la top 20 dei vinili più venduti degli anni Duemila che questa classifica del settimanale musicale inglese NME aveva già iniziato a movimentare.
Alla faccia di scoppiettii e fruscii. O, come dicono nel Regno Unito: «Pop» e «hiss».
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