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With The Beatles

Da un estratto del numero speciale di Rolling Stone in edicola, il racconto degli ultimi giorni dei Fab Four tra retroscena e la rivalità tra Paul McCartney e John Lennon

The Beatles. Foto Alamy

Essere nei Beatles era bello quando le cose funzionavano ma, nel novembre 1966, essere inseguiti dai fan ovunque andassero diventò faticoso. Poi, in seguito alla dichiarazione-gag di John Lennon «Siamo più famosi di Gesù Cristo», arrivarono anche le minacce di morte da parte dei genitori dei fan. «Eravamo stufi di essere i Beatles», ricordò Paul McCartney anni dopo.

Paul McCartney nel 1963. Foto di Popperfoto/Getty Images

«Detestavamo quel fottuto approccio ai 4-ragazzini-col-caschetto. Eravamo uomini ormai, tutte quelle urla erano roba vecchia: ne avevamo abbastanza. In più, ai tempi, eravamo esaltati dall’erba e ci pensavamo come artisti piuttosto che come performer». McCartney stava rientrando in aereo da una vacanza safari in Kenya, quando gli venne un’idea per salvare la band: «Pensai: costruiamoci degli alter ego così non dobbiamo mettere in campo la nostra immagine e saremo molto più liberi… Non saremo più i Beatles, saremo un’altra band».

L’altra band che finsero di essere pochi mesi dopo era, naturalmente, la Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (il nome venne in mente a McCartney quando vide le confezioni di sale e pepe servite proprio su quel volo aereo).

Nel backstage nel 1964. Foto di Curt Gunther/ LFI/ Photoshot

L’album divenne così parte dei canoni del pop che è facile dimenticare quanto bizzarro sia, in realtà. Al picco della fama, quando stavano cercando di essere presi artisticamente sul serio, McCartney convinse gli altri a farsi crescere strani baffi, a indossare costumi colorati e a vestire un’identità alternativa senza dare spiegazioni al pubblico: una fantasia da fumati, un piano che sulla carta non aveva alcun senso e che funzionò ben oltre le aspettative.

Sgt. Pepper era puro McCartney vintage, che fluttuava su una nuvola di entusiasmo dentro gli anni ’60. Nulla lo faceva scendere giù, era un dolce poeta dell’ordinario, che riusciva a trovare significati luminosi nel pagare un biglietto per un parcheggio (Lovely Rita) o nell’accudire un cane indisciplinato (Martha My Dear). Alla fine del 1968, con i Beatles che stavano crollando ancora una volta, provò a proporre loro un breve tour o una performance live da registrare; quando si riunirono in studio, si mise a cantare “Get back to where you once belonged”, come se con queste parole magiche potesse annullare lo strappo emotivo che si era creato. Quando tutto fallì e la band collassò in un buco nero, lui, in qualche modo, riuscì a far suonare quel momento come un cosmico finale felice (The End).

Paul McCartney e John Lennon al Cavern Club di Liverpool. Foto di Keystone Pictures USA/ Zuma Press

Ma McCartney non era pazzo. La positività centrale nel suo modo di vedere il mondo è stata troppo spesso confusa con una certa superficialità stucchevole. Ancora oggi è stereotipato come la controparte docilmente accondiscendente alla ribellione rock&roll di Lennon. Tuttavia, come sempre, se ci si avvicina meglio alle cose, non tutto è bianco o nero: McCartney, infatti, può tranquillamente essere messo sullo stesso piano di Lennon nella voglia di sfidare le convenzioni e nella capacità di sperimentare. E non si è risparmiato nel ricordare al pubblico, negli anni, questa cosa: «La cosa divertente», disse a RS nel 1986, «è che ci fu un tempo in cui io ero l’avanguardista dei Beatles».

Paul McCartney nel 1964 a Key West. Foto di Bob Gomel/The LIFE Images Collection/Getty Images

I critici si divertono a deriderlo per aver detto cose come questa, ma è vero: in alcuni passaggi della storia della band fu lui quello che spinse maggiormente per reinventarne il sound. Certo, essendo lui quello dotato di maggior talento naturale nella scrittura pop – uno che letteralmente si è sognato la melodia di Yesterday – è facile dimenticare le sue idee più innovative. Nel 1966, due anni prima che Lennon scrivesse Revolution 9 e incidesse Two Virgins, era già ossessionato da Karlheinz Stockhausen e dalla musica concreta. Tomorrow Never Knows è un brano di Lennon, ma non sarebbe suonato così tanto allucinato senza l’interesse di McCartney per i loop. (In quello stesso periodo valutò di registrare un intero album di roba eccentrica e farlo uscire con il titolo Paul McCartney Goes Too Far: se lo avesse fatto, oggi, ci sarebbe senz’altro un Tumblr dedicato a quanto era grandioso).

Paul McCartney nel 1968 ritratto da Linda McCartney

Sua era la satira sovversiva di Back in the U.S.S.R. scritta nel clou della Guerra Fredda e fu lui che volle esplorare un terreno più vicino all’hard rock, dopo aver letto un’intervista a Pete Townshend che si vantava degli Who. «Un solo piccolo paragrafo è stato sufficiente a ispirarmi», disse. «Mi sono seduto e ho scritto Helter Skelter perché fosse il pezzo con la voce più rauca e con la batteria più rumorosa e forte possibile». Non vogliamo negare che McCartney abbia un lato sentimentale, persino vagamente sdolcinato, quello che, durante le interminabili registrazioni di Ob-La-Di, Ob-La-Da, Lennon derideva e chiamava «robetta di Paul, musica per nonni».

Anche se questo pezzo, con il suo sorprendente groove ska, potrebbe non essere l’esempio migliore, è abbastanza adeguato a sottolineare il profondo amore che McCartney nutriva nei confronti di certi eleganti suoni del passato. «Sia io sia John amavamo molto i varietà, quello che gli americani chiamano vaudeville», disse più avanti – ma solo uno dei due scrisse Honey Pie, e non fu John. In ogni caso, in Paul c’è qualcosa di affascinante nell’essere stato, nei ’60, un po’ Jekyll e un po’ Mr. Hyde dal punto di vista musicale. Nessuna delle due attitudini cancella l’altra, anzi, la sottolinea.

«Ho sempre trovato questa cosa interessante negli album dei Beatles», disse a RS nel 2013. «C’era una cosa come Why Don’t We Do It in the Road? accanto a Blackbird: voglio dire, cavalcavamo i cambiamenti». E, proprio lui, l’ha fatto più di tutti. Nel 1967, nello stesso giorno in cui iniziarono a lavorare a Penny Lane, gli altri tre seguirono le sue indicazioni per scrivere il più leggendario tra tutti i loro inediti, i 14 minuti schizzati di Carnival of Light. “Il pezzo non ha ritmo,” scrisse il biografo Barry Miles, uno dei pochi che l’ha potuto ascoltare. “Non c’è melodia. I Beatles fanno suoni a caso, John e Paul urlano e le loro voci hanno molti riverberi, ci sono pianti di guerra, fischi, suoni di bocche tappate, veri colpi di tosse e frammenti di conversazioni in studio”. Che razza di mente può mai concepire una cosa simile appena dopo aver cantato l’incanto dei “blue suburban skies”?

I Beatles il giorno del lancio di ‘Sgt. Pepper’, a Londra nel 1967

Ma dimenticate Carnival of Light (niente di più facile, visto che non l’avete mai sentita) e altri esempi di sperimentazioni musicali in studio. Persino ballate come Till There Was You e Your Mother Should Know sono più bizzarre di quanto possano sembrare. Come Beatle, McCartney fu insolitamente interessato ai suoni ormai passati di moda della generazione di suo padre, era l’unico che poteva pensare di registrare When I’m Sixty-Four – una tenera fantasticheria sull’essere un signore anziano – proprio mentre di anni ne aveva 24 ed era all’apice del successo.

Una delle cose che rendono McCartney davvero cool è il totale disinteresse a sembrare cool. A partire da Things We Said Today del ’64 aveva iniziato a immaginare se stesso più vecchio: come in molte canzoni dei primi Beatles, qua si parla di giovinezza e amore, ma lui non può sottrarsi a un flash nel futuro: “Someday, when we’re dreaming / Deep in love, not a lot to say / Then we will remember things we said today”. Sorseggia il presente fingendo che sia già nel passato. Things We Said Today è stata una delle canzoni dei suoi vent’anni rivisitate per il tour mondiale del 2013. «C’è davvero molto lì», disse a RS, «è come una piccola collezione di tesori».

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