Hanno superato indenni sette puntate eliminatorie e sono arrivati a calcare il palco del Forum di Assago: Lorenzo Licitra, Samuel Storm, Enrico Nigiotti e i Måneskin sono stati i protagonisti assoluti dell’undicesima edizione di X Factor. Quattro personalità diverse, unite dal talento e dalla passione per la musica, che si sono fatte conoscere sulle scene settimana dopo settimana, arrivando a formare il poker della “finale degli amici”, come è stata ribattezzata dai concorrenti, a rimarcare gli ottimi rapporti stretti anche a livello personale.
Enrico Nigiotti è il veterano dei quattro: reduce dall’edizione di Amici nel 2010, prima di iniziare il suo percorso a X Factor aveva già visto la sua carriera vacillare. «La mia vita era quella di una persona che aveva cercato di fare questo mestiere e poi, un po’ per il suo carattere, un po’ perché oggi è veramente difficile emergere, si trovava in una fase di stallo. Così è nata l’idea di provare a fare X Factor: avevo delle canzoni in mano, tra cui L’amore è, e ho deciso di farmi promozione in un programma televisivo, che secondo me è il nuovo modo di molti musicisti per farsi vedere».
Trentenne livornese, un contratto discografico e tour importanti alle spalle, Enrico è entrato nel loft con un bagaglio di esperienza e una consapevolezza artistica più ampie dei compagni di avventura, tanto da spingersi fino a una considerazione inaspettata: «Io credo che grosse differenze tra me e Levante non ci fossero, sinceramente, se non a livello di ruolo, perché lei è stata giudice e io concorrente. Entrambi avevamo lo stesso scopo: promuoverci, farci conoscere. Ma ho vissuto questa esperienza con molta umiltà, senza sentirmi diverso. Certo, essendo più grande della media dei concorrenti, ho fatto più cose nella mia vita fino a questo momento: sono stato in tournée con la Nannini e con i Simply Red, e avevo già suonato al Forum d’Assago solo con la chitarra acustica. Avendo più esperienza potevo essere avvantaggiato, perché l’aria nello stomaco prima di suonare non ce l’ho più».
Agli antipodi rispetto al cantautore toscano, ma come lui con precedenti nei talent, c’è Samuel Storm, cantautore diciannovenne arrivato nel nostro Paese dalla Nigeria nel 2015 per stabilirsi in Sicilia. «Per un anno non ho fatto quasi niente, perché dovevo imparare la lingua. Alla fine di quell’anno ho provato con Amici: al terzo step mi hanno eliminato, perché non parlavo bene l’italiano. Quell’esperienza mi ha fatto crescere, prima non scrivevo», racconta. Dietro un modo di fare apparentemente schivo e silenzioso, nasconde un carattere deciso e ribelle, che lo ha portato a scontrarsi più volte con il suo giudice: «È stato un po’ difficile», ammette. «Ogni tanto parlo senza preoccuparmi dell’opinione di chi mi sta davanti. Dico quello che penso subito, secco. Ma, contemporaneamente, sono un po’ timido, e a volte non riesco a dire certe cose, per paura di offendere. Anche Fedez è timido, non parla molto, ed è capitato che non riuscissimo a comunicare», rivela. «È stato veramente difficile. Non ho ancora capito chi lui sia davvero, perché l’ho sentito molto lontano. Questa mancanza di comunicazione ha rovinato un po’ tutto quanto».
Incomprensioni che sono arrivate fino sul palco, e al pubblico: «Per me avevano scelto un percorso che non era veramente il mio, per quello ero un po’ giù, e mi sono ribellato. Ho sentito dire che sono arrogante, che cantavo come se volessi fare un favore a qualcuno. Ma semplicemente non ero a mio agio: mi hanno messo la giacca, imposto cose che non mi piacciono. Fuori non succederà più». Dalla Sicilia arriva anche il brutto anatroccolo dell’undicesima edizione di X Factor: il vincitore Lorenzo Licitra. Classe 1991, alle sue spalle c’è un background artistico particolare, differente da quello degli altri concorrenti. «Ho studiato per 5 anni al conservatorio di Piacenza», dice. «Ho voluto dedicarmi alla musica lirica, e questo mi ha coinvolto completamente: ho lasciato tutto il resto, e mi sono dedicato allo studio. Finito il diploma, è arrivata l’esigenza di mettersi in gioco, da qui l’idea di partecipare a X Factor».
Un tenore con il pop nel cuore, che, dopo un inizio incerto, ha trovato la sua agnizione in cima a una scala. «L’esibizione dei Queen, Who Wants to Live Forever, è stata quella che mi ha regalato di più durante il percorso a X Factor. Perché mi ha messo davvero a nudo: ho sfoderato le mie carte migliori, e me le sono giocate fino alla fine. Soprattutto, quello è un genere che non fanno tutti, ed è un pezzo difficile, che lo stesso Freddie Mercury ha cantato poche volte dal vivo. È stata una cosa che ancora oggi non riesco a spiegare. Ho avvertito che qualcosa era cambiato in me, e mi sono reso conto che anche il pubblico aveva recepito questo cambiamento. È stato bellissimo. La mia identità artistica alla fine sicuramente non era quella delle prime puntate. Credo che al pubblico sia arrivato anche questo, quei minimi feedback che avevamo durante le settimane di gara me lo hanno dimostrato».
La linea di confine tra identità e cliché è sottile e fragile, soprattutto nel contesto di un talent show televisivo, e il rischio di rimanere intrappolati è sempre in agguato. Il conflitto tra l’accettazione di una definizione e la sua negazione affligge anche Nigiotti, il “cantautore”: «Rispecchia la mia verità», commenta. «Penso sempre che sarei dovuto nascere nell’epoca del vino: quella di Vecchioni, di Guccini, che a me dà un sacco di poesia in più. L’epoca delle osterie. Magari è anche vero che sono un po’ classico, ma, alla fine, chi, tra 10 anni, ascoltando la musica che funziona oggi, non si vergognerà di aver ascoltato quel determinato album o canzone? Io invece non mi vergogno di ascoltare brani di 50 anni fa. Quindi che mi definiscano come cazzo vogliono, ma rimango me stesso. Sono una bottiglia senza etichetta: perché è il vino che fa la differenza. Mi chiameranno in mille modi, ma basta che mi chiamino. Mi accorgo ogni giorno di più di quanto io sia fedele a me stesso, e dritto sulla mia strada: voglio solo scrivere le mie canzoni e fare il mio genere, col mio stile. Penso di aver rappresentato la parte più indie di X Factor, e ne sono molto contento».
Se c’è qualcuno che non ha mai avuto crisi di identità, quelli sono i Måneskin. I romani Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi e Ethan Torchio dicono di essere «quattro normalissimi adolescenti», come sottolinea Damiano, che prima di X Factor «uscivano con gli amici, stavano con la famiglia – poco, come ogni adolescente – e passavano gran parte delle loro giornate a tentare di gestire il proprio piccolo mondo».
Una descrizione che suona parecchio understatement per il quartetto, che ha dimostrato con sfacciataggine di avere le idee molto chiare, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e l’immagine, sempre sul crinale tra apollineo e dionisiaco. «Ci siamo presentati a X Factor con una personalità nostra, Manuel Agnelli ci ha scelti proprio per la nostra forte identità», continua il frontman. «Siamo stati lasciati liberi di esprimerci, di svilupparci come persone. A X Factor si vivono 5 anni condensati in due mesi: siamo cambiati tanto e rapidamente. Nessuno ci ha mai forzati a fare cose che non volevamo, nessuno ci ha mai detto che cosa fare, il nostro giudice in primis. Siamo stati lasciati sempre liberi, e forse è stato questo il segreto: abbiamo portato una cosa vera dalle audizioni alla finale, e continueremo a farlo. Ciò che è successo durante il talent è soltanto un preambolo di quello che poi sarà fuori, e questo per noi è motivo di soddisfazione e orgoglio: il fatto che nessuno ci abbia voluto cambiare, vuol dire che forse tutto era già “giusto così”».
Un’esperienza in fast forward, X Factor, quasi la versione televisiva di quel White House Effect che provoca ai presidenti degli Stati Uniti un invecchiamento due volte più veloce del normale. Ma ne vale la pena? Su questo, i finalisti sono tutti d’accordo: «Sono state 8 settimane dure, ma la fatica è servita per tirar fuori la grinta giusta. La cosa più difficile a livello personale è stata rimanere due mesi lontani dagli affetti, non poterli sentire, non sapere cosa pensassero del nostro percorso, non potersi confrontare. Però, come si dice, ogni impedimento è giovamento».
Per Lorenzo Licitra, la parole chiave è stata “scoperta”: «Ho scoperto tante cose attravero lo studio dei brani che mi assegnava la mia giudice Mara, ho scoperto come muovermi sul palco, e ho scoperto che posso avere un pubblico diverso. Ora so cosa voglio, e so dove voglio arrivare: sicuramente il mio percorso sarà all’interno della musica pop. Abbiamo lavorato tanto per tirar fuori un po’ di rock, un’anima più sporca, come dice sempre Mara, e penso che alla fine ci siamo riusciti».
A ‘X Factor’ si vivono cinque anni in due mesi. Se nessuno ci ha voluto cambiare, vuol dire che eravamo giusti così
Samuel, invece, se ne va con una consapevolezza rinnovata: quella di cosa non vuole fare nella vita. «Io non sono una persona paziente», ammette. «Da quando sono piccolo ho sempre fatto quello che volevo. I miei genitori non sono più insieme, e così io ero sempre libero. Stare sotto un giudice che non mi ascoltava quasi mai, fare le cose che mi venivano richieste senza potermi rifiutare, per me è stato un po’ pesante. Sono una persona libera, che ama viaggiare. Stare nel loft mi ha fatto sentire un po’ costretto, e mi ha fatto soffrire. Però sono contento di aver avuto la possibilità di sperimentare cose diverse, e oggi sono ancora più sicuro di quello che sono: la fiducia in me stesso è aumentata. Se non avessi dato tutto, non sarei qua oggi. Sono sicuro che succederà qualcosa di molto positivo nel mio futuro, grazie a X Factor».
Concordano i Måneskin, che, con modestia manzoniana, per voce di Damiano, raccontano: «X Factor per noi è stato una scuola e un trampolino di lancio. Sia a livello artistico che di carriera, ora la nostra prospettiva è molto più alta. Vogliamo però rimanere con i piedi per terra: non ci aspettiamo di uscire e di essere la più grande band della storia, o di fare gli stadi. Sappiamo che dobbiamo ancora lavorare tanto, ma adesso avremo più opportunità e più mezzi a disposizione». «Abbiamo 16, 17, 18 anni, siamo ancora dei ragazzini», riconosce Victoria, bassista e unica donna ad arrivare fino in fondo a questa edizione della trasmissione di Sky. «Di solito a quest’età tutti gli altri pensano a divertirsi, mentre là dentro ci sono ritmi serratissimi, e doverli gestire ti mette tanto sotto pressione. Riuscire a cavarsela in quei momenti, rimanere sempre concentrato, e, soprattutto, continuare a divertirsi, nonostante le difficoltà, è stata la sfida più grande per noi».
«È la cosa di cui andiamo più fieri», conclude il giovane cantante della band romana. «Ciò che ci ha dato più soddisfazione è stato vedere che, in un mondo dove l’età media è di almeno 15 anni più alta, siamo riusciti comunque a muoverci bene e a dire la nostra. Ora, dopo questa esperienza, abbiamo la consapevolezza di essere pronti ad affrontare quello che potrà essere il mondo là fuori».