Era estate, c’era la pandemia e come tanti adolescenti Will Paquin non sapeva che fare. S’è messo a postare video su TikTok, spesso girati in cima a un edificio su cui saliva illegalmente vicino a dove vive, a Boston. Suonava la chitarra da quand’era bambino e ha studiato gli stili di Wes Montgomery e Kenny Burrell, e perciò nei video s’è messo a sparare un riff dietro l’altro. Del lato commerciale della cosa poco gli interessava. «Mai fregato niente delle etichette discografiche», dice oggi.
Eppure, quando sono arrivate visualizzazioni e follower, il suo account TikTok ha cominciato ad attirare l’attenzione di quelle stesse etichette. «Ci piace quel che fai», recitavano le e-mail che riceveva. Alla fine Paquin s’è ammorbidito. Dopo tutto, chi non vorrebbe essere sotto contratto con una di quelle case discografiche che valgono miliardi di dollari? Specialmente quelle, come la mette giù lui, «che sanno come lusingarti».
Paquin, che ora ha 21 anni, stava per firmare un contratto quando ha ricevuto una chiamata. Era Kyle McEvoy, un musicista che gestisce una piccola etichetta specializzata in musica strumentale, la Sonder House. Quel che gli ha detto è controintuitivo: non firmare. «Non aveva pubblicato nemmeno una canzone», ricorda oggi McEvoy, «non aveva idea di quel che sarebbe accaduto. Nella migliore delle ipotesi, la canzone avrebbe avuto successo e lui non sarebbe stato più in grado di liberarsi del contratto».
Nel 2022 gli artisti hanno sempre più possibilità di iniziare una carriera senza l’aiuto di un’etichetta. E però, pur essendo in grado di raggiungere il successo da soli, molti sono ancora convinti che la firma con una major sia la chiave per sfondare. E ovviamente le grosse etichette li incoraggiano a pensarlo.
Ma è anche sempre più facile trovare gente come McEvoy che mette in dubbio l’equità di quei contratti. Muni Long, ad esempio, ha pubblicato Hrs and Hrs per la propria etichetta, la Supergiant, dopo avere capito come funziona l’industria scrivendo per altri. «È un sistema opaco, indietro non voglio tornare», dice. «Voglio creare la mia cosa. La priorità è mantenere il possesso della mia musica».
«Se pensi che le canzoni siano come criptovalute da cui trarre il massimo profitto subito, bene, firma con una major, perché sono quelli che possono pagare il prezzo più alto», dice Roy LaManna, co-fondatore e CEO di Vydia, azienda che ha distribuito più di una dozzina di hit esplose su TikTok. «Ma se hai centrato una hit virale e vuoi avere una vera carriera, è difficile che tu ce l’abbia grazie a una major».
McEvoy parla da discografico idealista, un discografico dei tempi passati in cui le etichette non erano ancora multinazionali. Oggigiorno contano solo le hit, che vengono trattate con la stessa freddezza con cui ci si rapporta al mercato azionario. In un mondo dominato da dati, proiezioni e streaming, la musica è finita in secondo piano.
Per McEvoy, la musica «è l’unica cosa pura che c’è rimasta in questo mondo di merda». Sogna un villaggio-factory in cui gli artisti vivono uno vicino all’altro e collaborano. Guadagna pubblicando musica chitarristica strumentale che fa milioni di stream quando è inclusa in playlist di Spotify come Ambient Relaxation o Chill Instrumental Beats. Non paga anticipi ai suoi artisti, i quali mantengono però la proprietà delle loro registrazioni (i master) e delle composizioni (il publishing), oltre a guadagnare l’85% dallo streaming, al netto dell’8% che trattiene il distributore. Il restante 15% viene diviso in tre parti: il 5% all’etichetta, il 5% a chi fa il mastering in studio, l’ultimo 5% all’artista che cura l’artwork.
McEvoy considera Sonder House «un esperimento», un tentativo di «cambiare il funzionamento di un’etichetta». Dice di voler rispondere alla domanda che nessuno nell’ambiente si pone: «Qual è la cifra minima che posso trattenere da un artista pur continuando a fornirgli servizi utili?».
Nel modello classico usato dalle major, l’artista riceve un anticipo che col tempo dovrà ripagare. I termini variano, ma succede che cantanti diventati virali debbano cedere la proprietà delle loro registrazioni per un certo periodo di tempo: sette anni, a volte due decenni, a volte per sempre. Le major trattengono una percentuale per la distribuzione, a volte fino al 15%. E secondo quanto dicono i manager, i contratti più favorevoli prevedono comunque che almeno il 50% dei guadagni dagli streaming vada all’etichetta, una volta rientrata dall’anticipo e da altre spese.
Se Sonder House aiuta gli artisti in pochi campi selezionati, dal mastering all’artwork, le grandi etichette fanno grandi promesse: campagne radiofoniche, collaborazioni con le star, session con songwriter di grido. «Ma sono stronzi che una volta che hai firmato non si fanno nemmeno più trovare al telefono», dice LaManna.
Sono cose di cui Paquin nulla sapeva quando ha iniziato a caricare i suoi video su TikTok. «Che cos’è un contratto di publishing?», chiede a McEvoy seduto in un bar di Brooklyn. È tipico di tanti artisti che diventano virali e devono affrontare decisioni importanti con poche informazioni a loro disposizione. Di questa disparità informativa beneficiano le major che li mettono sotto contratto.
Alla fine Paquin ha dato fiducia a McEvoy e per ora entrambe le parti sono soddisfatte. Il chitarrista ha caricato su TikTok un riff che è diventato vitale e che ha trasformato in Chandelier. È la sua prima canzone ufficiale e ha totalizzato finora oltre 34 milioni di stream solo su Spotify. La fetta più grande della torta andrà a lui, l’artista, e non all’etichetta. Significa che «la mia vita è cambiata». Ancora non vuole la spunta su TikTok, «perché sa di business, non ti fa sembrare una persona qualunque», e sta imparando a scrivere e registrare.
Quando un suo artista esplode, Sonder House non aumenta, ma diminuisce la percentuale dei guadagni. Nel caso di Paquin, l’etichetta porta a casa solo l’1% dello streaming. Vale anche per Maye, cantante bilingue tra bolero e rock, e per Jonah Kagen, cantautore acustico diventato popolare grazie a Broken.
McEvoy giustifica la riduzione della percentuale in relazione inversa al successo con una frase che qualunque discografico troverebbe assurda: «Quando l’artista diventa grosso non puoi guadagnare quanto prima, ma di meno».
È opinione dei manager più illuminati che il trade-off tra indipendenza e benefici offerti dalle major dipenda da pochi fattori chiave, a partire dalla promozione all’estero e dall’influenza sull’airplay. Ma a meno che non siate una superstar, le radio non sono fondamentali e perciò i giovani manager non danno più tanto peso ai passaggi radiofonici.
Dalla loro, le major hanno grandi capitali che sono particolarmente utili per giovani artisti che hanno bisogno di soldi e subito. Oltre ad assicurare la sicurezza economica, per quanto temporanea, gli anticipi servono anche come biglietto da visita vistoso in un mondo ossessionato dallo status. Per chi pensa che avere successo significhi diventare una superstar – e non semplicemente guadagnarsi da vivere, che sarebbe un obiettivo più facilmente raggiungibile, nonché sostenibile – le major sono la scelta da fare, giacché tutti i grandi artisti usciti in passato sono in un modo o nell’altro affiliati alle grande etichette. «È difficile diventare una star globale restando indipendenti», ammette Long.
Ecco spiegato perché le major attraggono buona parte degli artisti che centrano una hit “virale”, anche se non è detto che questi artisti abbiano fatto la scelta giusta nel lungo periodo. Eric Parker è a capo della società di management Extended Play che si occupa di artisti all’intersezione tra TikTok e musica tra cui Suriel Hess e Sky McCreery. «Succede spesso di chiedersi “dov’è finito?” di chi ha avuto una hit virale e ha firmato con una major», dice. «Sono rari i casi di chi firma e ottiene un’impennata degli stream».
Per alcuni ha funzionato, si vedano i casi di Lil Nas X o di Tai Verdes, ma Parker invita gli artisti a «valutare con attenzione il valore aggiunto che vanno cercando. Quando un artista esplode sente di dover cogliere tutte le possibilità che gli si presentano prima che sia troppo tardi. E perciò chiedono alle major di promuovere la loro canzone. In realtà stanno giocando a dadi con la loro carriera».
Paquin si è convinto di aver fatto la scelta giusta dopo che Chandelier è diventata nuovamente virale in novembre, una botta di popolarità notevole per un artista finito al centro dell’interesse delle multinazionali (il processo è stato ridicolizzato dall’account Instagram Shitty A&R). All’inizio, Paquin si è sentito lusingato dalle attenzione delle major. Poi le mosse degli A&R delle etichette gli sono sembrate quasi stalking. «Sono stato al telefono ogni giorno per intere settimane. Mi pareva d’impazzire». I complimenti delle etichette gli sembravano strani, tipo: «Stai vivendo un momento pazzesco. E non durerà. Hai bisogno di noi».
«Non so se potete capire il livello di manipolazione in atto quando centinaia di persone ti dicono: amico mio, non durerà, la tua carriera finirà nel nulla se non firmi con noi», aggiunge McEvoy.
Le chiamate sono durate fino a dicembre, quando Paquin ha detto basta. Era nel bel mezzo delle sue ultime settimane alla Boston University dove studia pubblicità. Era lì, col tanto di completo, a fare la presentazione finale di un corso quando il telefono che aveva scordato accesso ha squillato. Era l’A&R di una casa discografica che continuava a chiamare. «L’ho richiamato una volta finita la lezione. “Amico mio” gli ho detto “così non va”. Era troppo. A quel punto ha affidato a McEvoy il compito di seguire e-mail e chiamate.
Ad altri artisti però piace essere corteggiati a botte di cene e bottiglie di buon vino. «È eccitante», dice John Vigorito, la cui Loud Era Records ha di recente pubblicato I Used to Care di Louyah. «Mi ha dato modo di incontrare Snoop Dogg e di parlarci di business. È facile farsi irretire».
Alla fine Louyah non ha firmato. «Consiglio sempre di mantenere il possesso delle proprie proprietà intellettuali», dice Vigorito. «Di per sé il licensing, cioè la vendita dei diritti di una canzone a una data etichetta per un certo periodo di tempo, non è un dramma. Ma è folle che duri 10 oppure 15 anni. E più gente interviene nel lavoro e più opinioni ci saranno. Onestamente, diventa un gran casino».
Firmando con quelle etichette dopo il boom, secondo Parker «gli artisti diventano meno flessibili. Sono disposti a rischiare meno di prima, prestano ascolto a chi suggerisce loro che musica fare e con chi farla. Ma quella gente non è il motivo per il quale gli artisti sono arrivati dove sono arrivati».
McEvoy ammette che firmare con Sonder House e non con un’etichetta tradizionale rappresenta una sfida: «Prendi la strada meno facile, per controllare il tuo destino». Non è per tutti. «C’è sempre l’idea che da qualche altra parte ci sia una qualche scorciatoia» e quando gli artisti «se ne vanno per incassare» è frustrante. «Fai tutto quel lavoro per loro e a un certo punto ti lasciano per incassare un assegno di 200 mila dollari dando via tutto quel che hanno» (il caso di Kagen, ora su etichetta Arista, brucia ancora).
È difficile dire se il modello Sonder possa essere replicato da altre etichette. McEvoy può permettersi certe cose perché l’etichetta non è la sua principale fonte di sostentamento. L’85% circa dei suoi guadagni derivano dalla musica che fa in prima persona. E in ogni caso i pezzi che pubblica con l’etichetta non mirano a un successo mainstream. Nemmeno Paquin ci puntava prima che milioni di ragazzi ne scoprissero la musica.
C’è poi un altro aspetto ancora più problematico: ci sono altre etichette disposte a ridurre i guadagni, lasciandoli nelle mani degli artisti? Gli altri discografici sono increduli quando gli si dice che Sonder House prende solo l’1% e si chiedono: facendo così, l’etichetta guadagnerà qualcosa? (McEvoy stima in un milione di dollari i ricavi dell’anno scorso). Sono idee che mettono in dubbio il reale valore di manager e discografici e quindi non sono ben viste. L’industria musicale è piena di passacarte che non vedono di buon occhio chi li considera superflui.
Il punto, per McEvoy, è che queste cose le dicano quelli come Paquin. «È il suo potere di artista che parla ad altri artisti. Sei diventato virale su TikTok? Non svenderti».
Questo articolo è strato tradotto da Rolling Stone US.