Non esiste un mondo senza Charlie Watts perché con la batteria lui ha cambiato il suono, di quel mondo. Per suppergiù sessant’anni il musicista dei Rolling Stones ha fatto solo mosse da maestro. Bastano i primi cinque secondi di batteria di Let It Bleed per costruirgli attorno tutta una mistica. È uno dei pezzi migliori degli Stones e nella sua essenza è la band che ascolta Charlie che suona. Mick cerca di tenerne il passo e i chitarristi a loro volta cercano di tenere il passo di Mick, ma in fin dei conti tutti quanti vogliono impressionare Charlie, l’uomo che ha reso grandi gli Stones senza concedere loro nulla.
Impressionarlo era impossibile. Nemmeno il suo stesso talento lo impressionava. Come ha detto Keith Richards in una cover story di Rolling Stone datata 1981, «per quel che mi riguarda, sono ogni giorno più grato della presenza di Charlie. È lui che non ci crede, è fatto così». L’intervistatore stenta a crederci e allora Keith insiste: «Non c’è nulla di forzato in lui, men che meno la sua modestia. È al 100% vero. Davvero non capisce perché mai la gente apprezzi il suo stile».
È per via della presenza di Charlie che Start Me Up viene ancora suonata dalle radio e non viene sfumata dove Mick canta “hai fatto venire un uomo morto!”. Non si fa caso a quella frase perché si è impegnati a sentire il groove messo giù da Watts nel finale (e diciamo pure che secondo alcuni fan ci sono registrazioni di Charlie con gli Stones che farebbero davvero venire i morti).
Watts se n’è andato nell’anno del quarantennale del classico degli Stones Tattoo You. Per chi è cresciuto negli anni ’80, Charlie Watts è quello di Tattoo You, impassibile nei video di Start Me Up e Hang Fire mentre i compagni della band posano da rock star. A un certo punto il batterista scuote il capo guardando Mick che balla. Non era una rock star, era un musicista che rifuggiva le stronzate, era quello che manteneva la calma dietro le spalle dei Glimmer Twins.
Il glamour non gl’interessava. Il suo matrimonio con Shirley è durato più della somma di tutti i matrimoni di tutti i membri di certe band. Gli piaceva dichiararsi amante del jazz, non del rock. «È musica da ballo», ha detto nel 1978, «e non è progredita granché dal punto di vista musicale. Progredire vuol dire fare musica modale tipo Miles Davis e nel rock quella roba non la puoi fare. Progredire vuol dire fare come John Coltrane e nel rock non esiste». Era solo rock’n’roll, ma gli piaceva, eccome se gli piaceva. «Controtempi tosti, ecco cos’è. L’hanno fatto i Beatles e noi pure».
Il grande giornalista di Rolling Stone Chet Flippo seguì la band nei tour epici degli anni ’70. Ha visto Charlie da vicino e l’ha raccontato nel classico It’s Only Rock & Roll. Occhio a questa scenetta tipica del decadentismo del 1978: «Mi siedo con la famiglia Watts. Shirley beve uno screwdriver per la prima volta in vita sua. Intanto Seraphina [la giovane figlia] legge una versione tascabile di Jaws 2. “Io ero contraria”, dice Shirley, “ma bisogna lasciare liberi i ragazzi di fare certe cose”».
Tattoo You è il disco perfetto di Charlie. È il motore dell’album, anche nelle canzoni in cui c’è lui che spinge e spinge e nient’altro. Prendete Neighbours: è la tipica canzone in cui tutti cercano di stargli dietro. L’unico momento in cui Charlie sembra venire colto di sorpresa è quando arriva il sax di Sonny Rollins.
Uno dei miei dischi preferiti di Charlie è Their Satanic Majesties Request e questo perché lì dentro è spesso l’unico della band che suona rock’n’roll. Mentre gli altri indugiano in idiozie psichedeliche – è per intenderci il disco sulla cui copertina Mick indossa un cappello da mago – Charlie va dritto per la sua strada, come in Citadel o in 2000 Light Years From Home. Il suo compito è assicurarsi che gli Stones in versione figli dei fiori non si perdano nei fumi dell’incenso, come quando fa il suo ingresso nel ritornello di Dandelion.
Ho visto un paio di concerti del tour 2019 degli Stones e Charlie era ancora mostruoso. Riusciva a rendeva epica Midnight Rambler ogni sera, anche se la canzone ha preso forma senza di lui (ed è lui la ragione per cui nessun altro gruppo potrebbe suonarla). Guardando Mick Jagger e Ron Wood correre su e giù per lo stadio si capiva perché lo facessero. E si capiva anche perché Keith Richards stesse ancora lì a cavare i suoi riff dalla chitarra. L’unico inafferrabile era Charles. Perché si sottoponeva alla sua età a un tale impegno? Perché mai continuava a farlo? La risposta è arrivata durante Midnight Rambler e si chiama groove.
C’era un momento in quei concerti in cui i quattro venivano sul fronte del palco. Non potevano nascondersi dietro ad altri musicisti. Lì la guida diventava Charlie. L’intero stadio lo capiva: la band doveva essere all’altezza degli standard di Charlie.
Ci sono interi dischi – mi vengono in mente Black and Blue o Emotional Rescue – in cui in fin dei conti gli Stones non fanno altro che ascoltare Charlie che suona. Non è male come concept per un album. Ecco perché Charlie Watts è la somma divinità della batteria rock. Keith Moon e John Bonham erano formidabili attaccabrighe, lui era l’uomo discreto che non notavi finché non piazzava un colpo da maestro. Della notorietà non sapeva che farsene. Era lì per fare il suo mestiere, vale a dire mettere ko la gente sera dopo sera, anno dopo anno.
Potremmo parlare a lungo di Connection o Sympathy for the Devil, di Let Me Go o Dirty Work o ancora di Rocks Off, Stray Cat Blues, Ride On Baby. Ma il pezzo migliore per salutarlo è la versione di Shake Your Hips di Slim Harpo contenuta in Exile on Main St. C’è Charlie che ribolle lentamente impedendo alla band di sbracare fino a quando, 55 secondi dopo l’inizio, piazza un singolo colpo, sdeng!, prima di tornare al suo stile.
È in momenti come quello che capisci: Charlie è l’unica persona da cui gli Stones hanno preso ordini, per 58 lunghi anni. Brindiamo al batterista che li ha resi la “world’s greatest rock & roll band”. Avanti così per sempre, Charlie Watts.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.