Gli assolo di Randy Rhoads e il suo approccio unico al riffing heavy metal, più simile a Bach che ai Black Sabbath, l’hanno reso una leggenda della chitarra immediatamente dopo l’uscita di Blizzard of Ozz, il debutto solista del 1980 di Ozzy Osbourne. Rhoads aveva passato i due anni precedenti nella prima lineup dei Quiet Riot senza grande successo – i due album che ha registrato con loro sono usciti solo in Giappone – e così il boom del disco di Ozzy e del primo singolo Crazy Train sono stati un toccasana sia per lui che per Osbourne, che viveva il momento peggiore della sua carriera dopo l’abbandono dei Sabbath. Durante l’audizione, Ozzy decise di offrirgli il posto da chitarrista dopo pochi secondi e i due hanno subito stretto un legame profondo. Insieme, hanno dato vita a una visione per la musica solista di Osbourne, una visione che sopravvive ancora oggi.
Tragicamente, però, hanno avuto poco tempo per stare insieme. Rhoads è morto a soli 25 anni in un assurdo incidente aereo il 19 marzo 1985 mentre la band era in tour per supportare il seguito di Blizzard, Diary of a Madman. Osbourne ha sofferto, ma è andato avanti, continuando a suonare le canzoni che avevano scritto insieme – Crazy Train, Mr. Crowley, I Don’t Know – per decenni, cementando il loro posto tra i migliori inni dell’heavy metal. Nel 1987 ha onorato l’eredità dell’amico con il doppio LP live Tribute, una collezione di registrazioni di concerti dell’epoca di Blizzard e Diary che mostravano il talento di Rhoads, soprattutto nel lungo assolo di Suicide Solution. Sulla copertina dell’album c’è una foto in cui Ozzy lo solleva in cielo con aria trionfale.
Nel corso degli anni, il mondo della musica ha spesso celebrato lo stile di Rhoads e il suo approccio neoclassico al metal. I magazine di settore l’hanno sempre messo nelle loro liste dei migliori chitarristi di sempre e ora la Rock and Roll Hall of Fame lo inserirà nella categoria Musical Excellence. «C’è voluto tanto tempo, ma alla fine ce l’ha fatta», dice Ozzy. «Era un grande musicista… dovrebbe essere ancora vivo. È morto in circostanze orrende». Qui, il cantante riflette sugli anni in cui l’ha aiutato a ripartire da zero. «Gli devo la mia carriera», racconta.
Quando ho incontrato per la prima volta Randy Rhoads, pensavo fosse una femmina. Ascoltarlo al Le Parc Hotel di Los Angeles mi ha disintegrato. È stato Dana Strum degli Slaughter a presentarmelo. Randy è arrivato, era un piccoletto, pesava qualcosa come 45 kg. Così ho pensato: «Quel tizio non riuscirebbe a sollevare una chitarra, figuriamoci suonarla». Ma quando ha iniziato ho capito: «Forse sono davvero fumato, ma questo tizio è meglio di chiunque altro abbia mai ascoltato». Era grandioso. Aveva un dono divino.
Aveva pure un atteggiamento figo. Non era appariscente in un’epoca in cui tutti copiavano Jimi Hendrix. Ho poi scoperto che insegnava nella scuola di musica della madre, un bel vantaggio per me perché significava che aveva pazienza. L’ho fatto venire in Inghilterra e ha vissuto a casa mia mentre ero con la mia ex moglie, poi ci siamo spostati in un appartamento a Londra. Io bevevo birra e mi sbronzavo tutto il giorno e intanto lui prendeva lezioni di chitarra.
Quando scrivevamo assieme, mi lasciava spazio e tempo. Ha studiato per capire quali fossero le tonalità migliori per il mio modo di cantare. Quando ero nei Sabbath, mi davano un riff e dovevo faticare da solo per trovare le melodie. Lavorare con Randy Rhoads, invece, era più semplice. Ricordo quando abbiamo iniziato a scrivere Goodbye to Romance. Mi ha detto: «Sai che c’è? Dovremmo farla in questa tonalità». Aveva ragione. Era davvero d’aiuto.
Quando abbiamo scritto Blizzard of Ozz, eravamo in un posto a Monmouthshire, nel Galles, ci andavo anche con i Sabbath. Puoi stare lì, ti danno anche da mangiare e c’è una sala prove. E noi vivevamo come una rock band, eravamo lì solo per suonare. Ricordo quando abbiamo scritto You Looking at Me, Looking at You e Crazy Train con Bob (Daisley, bassista). Un giorno Randy è arrivato e mi ha detto: «Ti spiace se faccio questo pezzo classico per mia madre?». Io ho risposto: «Assolutamente. Fai pure». Quel pezzo è diventato Dee. È un disco speciale, quello.
All’epoca, tutti i chitarristi che conoscevo facevano il tapping come Eddie Van Halen. Anche Randy lo usava, ma era un musicista molto intelligente. Lo mischiava con un po’ di musica classica o con il blues. Non era un grande fan dei Sabbath, ma gli piaceva Leslie West (il chitarrista dei Mountain) e un sacco di altra gente. Ricordo quando ha registrato il solo per I Don’t Know, mi è esplosa la testa. Anche quello alla fine di Mr. Crowley era fantastico, nella stessa categoria di quello di Comfortably Numb dei Pink Floyd. Quando senti una cosa del genere, sai di avere di fronte un tizio diverso da tutti gli altri.
Nei giorni liberi, chiedeva ai roadie di portarlo in giro. Credo abbia visto più Gran Bretagna di me. E aveva un hobby: collezionava trenini. Spesso tirava fuori l’elenco del telefono, chiamava un chitarrista classico e andava a fare lezione con lui. Credo sia il musicista più vero con cui abbia suonato.
Di solito era silenzioso, ma aveva anche un lato divertente. Una volta eravamo nel bar di un hotel, in un giorno libero, e c’era un tizio che suonava il pianoforte. Randy si è avvicinato e gli ha chiesto se poteva accompagnarlo. Il tizio ha accettato, lui ha tirato fuori un piccolo amplificatore Pignose e ha iniziato a suonare musica classica. Il pianista era davvero colpito. Poi, all’improvviso, Randy ha iniziato a fare le mosse da rockstar, alla Pete Townshend. Esilarante.
Quando suonava qualcosa di nuovo, mi venivano i brividi. Pensavo: «Che diavolo, non so che cavolo stai facendo, ma è roba buona». Una volta stavamo tornando all’appartamento e mi ha fatto sentire un’idea. «Cosa ne pensi?». Era il riff di Over the Mountain. Ho detto: «È straordinario, cazzo».
Ricordo che ha lavorato davvero duramente all’assolo di Diary of a Madman. Aveva registrato una take ma non era soddisfatto. Così gli ho detto: «Sai che c’è, Randy, torna lì dentro e prenditi tutto il tempo che vuoi. Ricorda che se lasci lì una cosa che non ti soddisfa, ti perseguiterà per tutta la vita. Ascoltare quel pezzo ti farà sempre incazzare». È rimasto in studio dal giovedì al venerdì sera, poi tutto il weekend. Ci ha vissuto per due giorni. Domenica è venuto fuori con un sorrisetto in faccia: «Ci sono riuscito», ha detto. Era felicissimo di quell’assolo.
La nostra intesa sul palco era fantastica. Lo sollevavo con un braccio. Era piuttosto leggero, così mi veniva facile. Lo vedi nella foto di copertina di Tribute, ma devo confessare che quel disco non l’ho mai ascoltato. Non riesco.
Se ricordate bene, nel 1982 ho pubblicato un disco di cover live dei Sabbath, Speak of the Devil. L’ho fatto perché il contratto ci obbligava a pubblicare Tribute, ma io non volevo. Temevo che i fan pensassero che volessi speculare sulla morte di Randy. Ma visto che ero obbligato a pubblicare un live album, sono andato in un club di New York e abbiamo registrato Speak of the Devil. I Sabbath pensavano che l’avessi fatto per rompergli le palle, ma io non sapevo che stessero per fare un disco dal vivo (Live Evil).
Dopo i concerti, Randy continuava a suonare la chitarra. Sedeva sul bus e scriveva le sue cose sullo spartito. Non so come si chiamassero quei pezzi. Sua madre ha cercato di decifrarli, ma non è riuscita a raccapezzarsi.
Devo avere il sesto senso o qualcosa del genere, perché sapevo che sarebbe morto giovane. Alcune persone sono semplicemente troppo buone. Non si drogava. Beveva poco. Noi vivevamo come pirati e lui mi diceva sempre: «Ozzy, finirai per ammazzarti».
Nell’ultimo viaggio in bus che abbiamo fatto insieme, da Knoxville, Tennessee, a Orlando, Florida, mi ha detto: «Voglio lasciare il rock». Ho risposto: «Vuoi fare cosa?». Era il tipo di persona che dopo aver sperimentato una cosa, vuole subito cambiare. Ho detto: «Mi prendi in giro?». E lui: «No, voglio laurearmi all’UCLA». Così ho risposto: «Se continui a fare quello che stai facendo, te la potrai comprare l’università». È l’ultima conversazione che abbiamo avuto. Dodici ore dopo è morto. Ogni volta che ci penso, anche adesso, mi viene in mente il film di quella giornata. Ogni volta che ne parlo torno lì. È uno degli episodi più tristi della mia vita.
Dopo la sua morte, ho vissuto l’orribile esperienza di due funerali in una settimana (uno per Randy, l’altro per l’assistente ai costumi Rachel Youngblood, anche lei scomparsa nell’incidente). Mi ha devastato. Da allora non riesco più ad andare ai funerali. Non sono andato a quello di mia madre, di mia sorella e di mio padre. A quei funerali è successo qualcosa.
Dopo la morte di Randy ero emotivamente a pezzi. Ho ritrovato la strada giusta per registrare solo dopo No More Tears. È morto davvero giovane, non se lo meritava. È strano che io sia qui a rifletterci. Sono passati 40 anni, cazzo, ma sembra ieri.
Ci siamo frequentati per troppo poco tempo, ma quello che mi ha dato è di una grandezza incommensurabile. Avere uno come Randy Rhoads su due dischi, dischi che suonano bene come il giorno in cui sono stati registrati, è grandioso. Gliene sarò per sempre grato. Solo dio sa dove sarebbe oggi. Il fatto che non sia qui a respirare la nostra stessa aria è un cazzo di crimine.
Grazie a Dio la Rock and Roll Hall of Fame ha riconosciuto il suo talento. Alla fine ce l’ha fatta. Il fatto che sua madre non possa vederlo mi intristisce, perché erano molto vicini. So che il fratello Kelle e la sorella Kathy saranno felici come una pasqua. L’evento mostrerà a tutti che non è stato dimenticato. Era un musicista vero, devoto, e una bella persona. Penso a lui di continuo.
Lunga vita a Randy Rhoads il re!
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.