Paolo Benvegnù e quella naturale propensione alla poesia | Rolling Stone Italia
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Paolo Benvegnù e quella naturale propensione alla poesia

Nel suo ultimo disco ‘È inutile parlare d’amore’, un pezzo si intitola 'Canzoni brutte': “Scrivere canzoni brutte / che possan piacere a tutti e a tutte” la dice lunga sulle pressioni che l’uomo e l’artista devono aver subito nel corso degli anni. E tutto questo perché? Perché Benvegnù sa solo scrivere canzoni belle. Perfette. Meravigliose

Paolo Benvegnù e quella naturale propensione alla poesia

Paolo Benvegnù

Foto: Antonio Viscido/Press

Il primo ricordo che ho di Paolo Benvegnù risale alla fine degli anni ’90. All’epoca suonava con gli Scisma, che erano sulla cresta dell’onda, e andavo a intervistarli per la seconda o terza volta – a quei tempi, quando non c’erano centinaia di pubblicazioni ogni mese, ogni pretesto era buono per scambiare due parole con i protagonisti della scena musicale. La mia sorpresa, rivedendo la band, fu l’accoglienza di Paolo: mi abbracciò come se ci conoscessimo da una vita, con calore e genuinità sincera, e il suo atteggiamento fu tanto più sorprendente quanto fosse comune, in quel periodo, confrontarsi con persone che al primo accenno di successo ti guardavano con sussiego, infastidite dal dover dar retta a un giornalista rompiscatole. Da quell’episodio avrei già dovuto intuire che Benvegnù era un personaggio di categoria superiore. Un uomo buono, profondamente empatico, ironico e autoironico, con una naturale propensione per la poesia in tutto quello che faceva. Lo avrei scoperto nel corso degli anni.

Gli Scisma non erano Paolo Benvegnù. Addirittura non sembrava che fosse lui il leader della band, che era un quintetto di personalità eterogenee e ben distinte. Il loro stile era in linea con l’esplosione del nuovo rock italiano di quel decennio, in sospeso tra melodia e rumore – forse erano tra quelli con la maggiore propensione al pop. Non furono la migliore band di quel periodo; furono un buon gruppo, che ci lascia un paio di album ascoltabili ancor oggi. Se gli Scisma ebbero vita breve, tuttavia, fu per molti versi per ‘colpa’ di Paolo, che non volle sottomettersi alle richieste della major di turno, la EMI. Era testardo, Paolo, e aveva dei principi: quando i dirigenti discografici vollero imporre un cambio di formazione che alla band non piaceva, lui fece saltare il banco.

Nei primi anni del nuovo millennio, Benvegnù non è più un protagonista dell’alternative italiano. Lavora molto come produttore (ruolo per il quale mostra un certo talento: sentire ad esempio Canzoni allo specchio dei Perturbazione, o il più recente Sete dei Miriam), collabora con vari artisti (da Marco Parente ai Tuxedomoon), ma sembra destinato a un ruolo dietro le quinte della scena. Invece, un po’ a sorpresa, nel 2004 esce il suo primo album solista, Piccoli fragilissimi film, che lo rivela appieno come cantautore, e già ne delinea le caratteristiche sui generis. In quel momento in Italia sta nascendo una nuova generazione di cantautori, che fondamentalmente si rifà in modo piuttosto piatto allo stile dei nomi storici degli anni ’70, ovvero al classico sound acustico su armonie poco elaborate tanto caro al Premio Tenco, con testi non più di protesta sociale, ma intimisti e personali. Benvegnù mostra il valore aggiunto di avere basi anche rock, e comunque molto più diversificate e sofisticate rispetto a tanti altri; il suo sound è ricco e originale, l’impianto armonico-melodico solidissimo, e i testi ci fanno scoprire un talento poetico fuori dal comune.

L’album diventa un piccolo successo underground, e ne consegue un lungo tour che ne consolida la reputazione; dal vivo Paolo ha sempre avuto band di grande efficacia esecutiva, e lui è un animale da palcoscenico: non uno che spettacolarizza lo show ma che accompagna il pubblico con un’abilità affabulatoria, anche umoristica, di grande coinvolgimento; per non dire della disponibilità e della dolcezza con cui si concede nel dopo-concerto. La fan base, che non ha mai raggiunto dimensioni elevate, si rivelerà nel tempo fedelissima; non gli consentirà mai grandi numeri in termini di vendita, ma rimarrà costante nel tempo.

Piccoli fragilissimi film non è neanche il suo disco migliore, a mio parere. È un’opera prima e come tale ha una grande importanza; contiene un numero importante di cavalli di battaglia (da Il mare verticale a Suggestionabili, da È solo un sogno a Quando passa lei a Cerchi nell’acqua), e non a caso pochi mesi fa ne è uscita una versione “Reloaded”, con l’intero album reinterpretato da una lunga lista di artisti celebri (Piero Pelù, Malika Ayane, Dente, La Rappresentante di Lista, Tosca, Motta e molti altri). Ma è solo l’inizio, e Paolo avrebbe mostrato per il seguito di saper fare ancora meglio. Il successivo Le labbra (2008) lo vede spingersi in territori musicali ancora più arditi e sperimentali (e contiene almeno un suo altro classico: La schiena), ma è con Hermann, del 2011, che probabilmente tocca il suo apogeo artistico. Non solo ci sono in questo disco canzoni memorabili (Love Is Talking, Achab In New York, Johnnie & Jane, Il pianeta perfetto, Avanzate, ascoltate, eccetera), ma l’amalgama di varie influenze musicali, con perfino puntate nella dance e nell’elettronica, è perfetto. Ai tempi di Hermann, Paolo Benvegnù è per molti il migliore cantautore d’Italia. Per quale motivo questo artista gigantesco sia sempre rimasto, in definitiva, un culto per pochi, è una di quelle ingiustizie per le quali il mondo non è il posto che vorremmo che fosse. Ogni disco di Paolo ha partecipato alla Targa Tenco, e ogni volta fino al 2024 (o quasi: dovrei rivedere le classifiche, ma poco importa) è arrivato al secondo posto. Con una certa regolarità, si preconizzava l’esplosione di Benvegnù nel mainstream; ma non è mai avvenuta. Si vocifera molto di una sua ipotetica partecipazione a Sanremo, mai realizzata, parrebbe, per mancata coincidenza tra la sua proposta artistica e le richieste della direzione.

Ma apparentemente, Paolo non si è mai troppo curato di questo mancato successo popolare. Non ha mai fatto mistero di aver sofferto di difficoltà economiche, ma è anche sempre riuscito a cavarsela. In assenza di progetti altisonanti, ha continuato per la sua strada, pubblicando ancora dischi, uno più bello dell’altro (tra i quali segnalerei almeno H3+, del 2017, e Dell’odio dell’innocenza, 2020), e organizzando collaborazioni meno prestigiose ma non meno riuscite, come lo spettacolo I racconti delle nebbie (un reading dei testi di Nicholas Ciuferri con basi chitarristiche dello stesso Paolo) o un tour insieme a Marina Rei alla batteria. Certo non fa particolarmente piacere scoprire che Giusy Ferreri ha fatto una cover della tua canzone Il mare verticale sentendola casualmente alla radio (e addio royalties…), ma tutto si può sopportare.

Anche se, insomma. A fine 2023 vedo Paolo in apertura del concerto che attesta la reunion dei La Crus, a Reggio Emilia, e percepisco nei suoi interventi vocali tra una canzone e l’altra un tono più amaro del solito, come se si rendesse conto che ormai le sue eventuali speranze di fare il salto di qualità sono ridotte al lumicino. Nel suo ultimo disco uscito all’inizio del 2024, È inutile parlare d’amore, un pezzo si intitola Canzoni brutte: “scrivere canzoni brutte / che possan piacere a tutti e a tutte” la dice lunga sulle pressioni che l’uomo e l’artista devono aver subito nel corso degli anni. E tutto questo perché? Perché Benvegnù sa solo scrivere canzoni belle. Perfette. Meravigliose.

Nel 2024 ho visto dal vivo Paolo Benvegnù tre volte. La prima, a ridosso del disco appena uscito, accadeva dopo un lungo vuoto di comunicazione, a causa di numeri di cellulare cambiati, ed è stata suggellata da un lungo abbraccio a fine concerto, che se ci penso mi vengono i brividi. L’ultima è avvenuta poco più di un mese fa, per il tour di promozione della riedizione del primo disco. Siccome non avevo ancora comprato il disco, ho chiesto a Paolo se ce ne sarebbero stati in vendita; lui mi ha risposto: “Sì, sì… Che vergogna…”. Siccome non capivo, alla mia richiesta di chiarimento, mi ha detto: “Perché mi vergogno che non posso regalarli”.

Questo era Paolo Benvegnù: un uomo di una generosità incredibile, di immensa empatia, e di talento artistico e poetico sopra la norma. Ci lascia a pochi mesi dalla vincita di quella maledetta Targa Tenco (con quello che probabilmente non è neanche il suo disco migliore), e chissà se con questo successo la sua carriera avrebbe avuto una svolta. Non ci sarà modo di saperlo.

Addio, Maestro (come chiamavi tutti quelli che conoscevi). Fai buon viaggio.

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