Quante volte ci siamo trovati, Shazam alla mano, a scoprire nuova musica, stravaccati sul divano davanti all’ultima puntata della nostra serie preferita? Musica che riaffiora o che emerge per la prima volta dall’enorme marmitta in ebollizione dell’industria musicale. Chi ha scelto quel brano, chi ha riscoperto, in tempi non sospetti, quella canzone?
Chi stila il menù per le nostre orecchie, insieme a registi, direttori e creativi e producer è il music supervisor, figura ponte tra il mondo della musica e quello del video. Un professionista qualificato che sovrintende tutti gli aspetti legati alla musica in film, televisione, pubblicità, videogiochi, e altre piattaforme media visuali, esistenti o emergenti (Guild of Music Supervisors). Ma c’è dell’altro, un che di alchemico nel loro mestiere. Sono persone con una passione sfrenata per la musica, conoscenza enciclopedica dello scibile udibile, degli aspetti legali della musica, ed una sensibilità che permette loro di immaginare associazioni tra immagini e musica inedite, contestuali al panorama culturale nel quale operano. Il loro lavoro spinge un film, una serie TV, una pubblicità, a balzare in avanti in termini di forza emotiva, complessità sensoriale e stratificazione dei significati.
L’idea dell’associazione tra scena visiva e musica non è nuova: va dal teatro greco alla video-arte. Ai tempi del cinema muto la musica, suonata dal vivo, era spesso improvvisata. Con la comparsa di tecniche di registrazione e riproduzione del suono la performance dal vivo viene sostituita dalla riproduzione di un nastro. Questa operazione di “abbinamento” tra immagine e suono è conosciuta come sincronizzazione. E voilà, la musica è parte della settima arte. Basta ripensare a Peter Fonda e Dennis Hopper in sella alle loro Harley Davidson per sentire le note di Born to be Wild echeggiare nelle orecchie.
Se in genere non si parla molto del tema al di fuori del settore, a volte le scelte di un music supervisor si attraggono l’attenzione della stampa, come è successo con la polemica che ha accompagnato l’uscita di Joker (Todd Phillips, 2019). In una scena del film Joaquin Phoenix balla al ritmo di Rock ‘n Roll Part 2, brano del 1972 di Gary Glitter, autore inglese condannato nel 2015 a 16 anni di carcere per reati legati alla pedofilia. L’accusa rivolta alla produzione del film (il music supervisor è Randall Poster) era di arricchire un criminale macchiato da reati gravissimi. La situazione si è poi risolta con la rassicurazione che l’autore non riceverà royalties per la sincronizzazione. Fa da eco una polemica analoga (e risolta in modo analogo) riguardante un brano scritto da Charles Manson riproposto a cappella nell’ultimo film di Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood (2019).
Se i trascorsi di artisti e autori possono essere un campo minato per un music supervisor, questi possono rappresentare anche opportunità: Dave Jordan, music supervisor di Black Panther (Ryan Coogler, 2018), racconta di come dopo aver contattato Kendrick Lamar per produrre un brano della colonna sonora del film, questi abbia infine prodotto l’intero album, grazie alla straordinaria intesa artistica tra il musicista ed il regista. In questo caso la statura dell’artista (Kendrick Lamar ha vinto il Pulitzer nel 2018, primo rapper nella storia del premio, ed ha sempre avuto attenzione per la realtà sociale del suo paese) ha contribuito in maniera positiva alla ricezione del film (non fosse stato per la colonna sonora, probabilmente non lo avrei guardato).
La scelta della musica giusta è un processo lungo e complesso, gli aspetti da tenere in considerazione molti: Lynn Fainchtein, music supervisor di Roma (Alfonso Cuaron, 2018) racconta di aver passato un anno e mezzo a fare ricerca per selezionare canzoni passate in radio e TV in Messico tra il 1970 ed il 1971 (l’ambientazione del film), rispolverando vecchi numeri di un settimanale dell’epoca, Notitas Musicales, che riportava la programmazione radio e TV.
Se a volte il brano giusto è quello più coerente con l’ambientazione storica, altre è vero l’opposto. Prendiamo la sigla d’apertura di Peaky Blinders: dall’ambiente scuro e fumoso della Birmingham degli anni venti emerge Thomas Shelby. Ad accompagnarlo, la voce tragica e ferale di Nick Cave: “On a gathering storm comes a tall handsome man, in a dusty black coat with a red right hand”. In pratica descrizione e presagio. Sembra scritta apposta, ma non lo è. Il brano è del 1994, diciannove anni più vecchio della prima stagione di Peaky Blinders.
Quasi sempre brani esistenti vengono affiancati da colonne sonore commissionate (a parte rari esempi, vedi Alta Fedeltà, 2000), e anche in questo caso ci si può trovare innanzi a sfide singolari: il music supervisor di The Man in the High Castle, Gary Calamar, nella direzione della colonna sonora ha dovuto immaginare un mondo musicale distopico basato sulla finzione politica della serie.
A volte poi la sfida è tecnica: in una recente produzione per Netflix, Black Mirror: Bandersnatch, il pubblico si trova a poter scegliere tra opzioni che porteranno il film a svilupparsi in un modo o in un altro. Questo significa tante colonne sonore quanti sono gli scenari possibili. A tratti la musica è coerente con il setting del film, a tratti dissociata, a rinforzare il gioco di straniamento ed alienazione che pervade il film. Il lavoro di Amelia Hartley, la music supervisor del film, si sviluppa sul sottile filo della tensione narrativa in un equilibrio sparso e mutevole.
Le ragioni che hanno portato alla ribalta delle cronache (anche se principalmente su stampa di settore) la figura del music supervisor negli ultimi anni sono tante, e vanno ricondotte ad un contesto in cui sia l’industria del video (che sia intrattenimento, pubblicità o multimediale) che quella musicale hanno subito grandi cambiamenti.
A dimostrare l’accresciuto interesse per la figura anche il fatto che siano sorti corsi dedicati alla music supervision in varie università (vedi i corsi di perfezionamento alla UCLA), e che siano sempre più frequenti eventi di settore tesi ad avvicinare chi offre musica e music supervisor.
In Italia l’associazione tra immagine e musica ha una lunga tradizione, e come altrove, le produzioni di film e TV si avvalgono di music supervisor e consulenti musicali, restituendoci bellissimi quadri audio-visivi. Pensiamo ad esempio a Gomorra (la serie), nella quale si fa un uso trasversale, esteso e narrativo di musica napoletana, spaziando dal neomelodico al rap partenopeo, e che ci restituisce immagini crude per orecchie ricettive. Un esempio: il finale della seconda stagione, sulle note di Secondigliano Regna di Enzo Dong.
Per quanto riguarda il mondo della comunicazione, la figura del music supervisor sta lentamente acquisendo credibilità anche in Italia. In un contesto in perpetua evoluzione come questo, figure professionali che si occupino di ambiti molto specifici hanno un ruolo sempre più importante nell’esplorare il territorio dell’associazione tra musica ed immagine (penso al lavoro di Daniel Cross sulla campagna Adidas Original is never finished, che ha saputo dare tono e significato nuovi a My Way di Sinatra).
Negli ultimi anni varie realtà hanno iniziato a proporre soluzioni di music supervision nell’ambito della comunicazione, che sono state accolte molto bene. L’idea di promuovere iniziative sul tema (un esempio è il panel che si terrà durante la prossima edizione di IF, l’8 novembre al BASE di Milano, con ospite Amelia Hartley) potrebbe apportare alla discussione contributi fecondi.*
*: L’autore è il consulente musicale di Operà Music.