La prima legge sul copyright risale a tre secoli fa, ma quel primissimo Copyright Act britannico, chiamato anche Statuto della Regina Anna, non poteva prevedere le casistiche proprie dell’era digitale. È diventato sempre più difficile stabilire cosa si possa legalmente fare e cosa no di un’opera d’arte, specialmente online, perché significa parlare di un’infinità di utilizzi diversi. Video su YouTube e Vimeo, canzoni su Spotify e Deezer, link alle notizie su Facebook e Google News, condivisione di articoli. Ma anche formazione e ricerca accademica, oppure vidding, meme e altre pratiche che non si diffondono con l’intento di lucrare sul lavoro altrui.
In nome della libertà di espressione e di informazione, con l’esplosione della digital economy negli ultimi dieci anni, è stato possibile trovare praticamente tutto. Internet ha cambiato tutto ed è quindi è necessario armonizzare i diversi utilizzi e i modelli di business attualmente vigenti. Per farlo, l’Unione Europea ha adottato nel maggio 2015 una strategia per il mercato unico digitale e nel dicembre dello stesso anno la Commissione Europea ha pubblicato la comunicazione “Verso un quadro normativo moderno e più europeo sul diritto d’autore”, in cui sono delineate azioni mirate e una visione a lungo termine per un aggiornamento delle norme europee in materia. L’obiettivo della proposta è armonizzare a livello europeo le eccezioni e i limiti al diritto d’autore e ai diritti connessi (cioè i diritti di sfruttamento economico delle opere).
Il Parlamento Europeo ha approvato tale proposta nel settembre 2018, il testo definitivo è poi stato approvato dallo stesso Parlamento nel marzo 2019 e il mese successivo questo ha passato il vaglio del Consiglio dell’Unione Europea. Gli stati aderenti all’UE sono a quel punto sono stati chiamati a mettere in vigore le disposizioni e a farlo entro il 7 giugno 2021. In Italia, nonostante si tratti di una norma che ha conseguenze per tutti (o per lo meno tutti coloro che utilizzano internet), se n’è discusso molto poco. I nostri artisti hanno parlato di tanto in tanto dei loro diritti, mentre più raramente si sono sentite le criticità rilevate da realtà come Wikimedia e Creative Commons, convinte ad esempio che l’accesso alla maggior parte di ciò che chiamiamo “patrimonio culturale” non debba essere ostacolato. Dato il ritardo nel recepimento, in luglio sono state avviate allora delle procedure di infrazione e infine il 4 novembre il nostro Paese ha adottato uno schema di decreto.
Approvato questo schema, il Ministero della Cultura guidato da Dario Franceschini ha emesso un comunicato in cui abbiamo trovato termini comprensibili solo agli addetti ai lavori. Abbiamo allora deciso di farceli spiegare da Caterina Sganga, professoressa associata alla Scuola Universitaria Superiore di Sant’Anna a Pisa ed esperta di diritto d’autore.
Il decreto con cui l’Italia ha recepito la Direttiva riguarda soprattutto i rapporti tra creatori e produttori, editori, piattaforme e tutti coloro i quali abbiano ottenuto dagli autori originari i diritti di autore per trasferimento o licenza. E «porta delle buone novità che possiamo sintetizzare in tre nuovi diritti: all’equa remunerazione, alla rinegoziazione e quello ad essere informati rispetto a come verrà utilizzata la propria opera», dice Sganga.
Parlare di equa remunerazione o equo compenso sembra voler dire l’ovvio, ma di fatto quello in ambito artistico è nella maggior parte dei casi un lavoro precario in cui bisogna di volta in volta contrattare. Per questo oltre 2000 artisti, tra cui Paolo Fresu, Ligabue, Gianna Nannini, Mario Biondi, Frankie hi-nrg mc, Irene Grandi avevano scritto un appello a supporto della campagna europea PayPerformers, indirizzato al ministro Franceschini e ai presidenti di Camera e Senato.
«D’ora in avanti le prerogative che il decreto attribuisce agli autori integreranno automaticamente i contratti tra autori e produttori o distributori commerciali». Tra le nuove regole di default c’è anche il diritto a rinegoziare il compenso originariamente pattuito: se l’opera si rivela di successo, «il suo autore potrà ottenere un guadagno commisurato, rinegoziando quanto concordato inizialmente». I primi a pensarci erano stati i tedeschi con la cosiddetta clausola best seller, che aveva permesso a un direttore della fotografia di rivendicare il ruolo decisivo avuto nella realizzazione di film di grande successo, U-Boot 96. Jost Vacano era stato nominato agli Oscar e il film era passato in televisione moltissime volte, fino a quando il direttore della fotografia si era stufato di stare a guardare e grazie a quella clausola aveva avuto 475 mila euro di risarcimento, più il 2,25% di tutti i guadagni futuri del film.
Il decreto approvato corrisponde a una buona notizia anche per i freelance, che sono in genere pagati meno dei redattori assunti, ma che potrebbero far valere questo principio dimostrando una volta di più che il loro lavoro non vale meno di quello fatto da chi è assunto. Basti pensare alle inchieste giornalistiche, spesso affidate a professionisti esterni e capaci di raggiungere un pubblico più vasto di quello ottenuto con altri articoli che compaiono su una stessa testata, a volte in grado anche di consentire l’apertura di un’indagine che fa poi scoppiare uno scandalo politico.
Le cose si complicano invece quando gli autori di un’opera sono diversi e non è facile stabilire con esattezza quale sia il contributo dato da ognuno, o quando si tratti di contributo accessorio. In questi casi, spiega Sganga, «sarà possibile chiedere un forfait» e il contributo si valuterà in base ad opere dello stesso tipo e al momento in cui questa è stata commercializzata. Sarà obbligatorio per i distributori specificare preventivamente agli autori in che modo e dove l’opera sarà utilizzata «con l’obbligo ad aggiornare queste informazioni ogni sei mesi». Se invece l’opera non viene commercializzata – poniamo il caso di un brano creato per uno spettacolo che non si terrà più – «l’autore può chiedere sia la cessazione dell’esclusiva eventualmente concessa al distributore, sia la risoluzione del contratto. Prima questo era previsto solo in favore degli autori di opere sottoposte a contratto di edizione (libri ed altre pubblicazioni analoghe)».
Dopo anni di interventi legislativi europei concentrati sulla competitività dell’industria creativa e culturale europea, senza distinguere tra autore ed altri titolari dei diritti, ora è finalmente l’autore il destinatario del provvedimento. Un po’ un ritorno alle origini della normativa in materia di copyright.
I dirigenti di YouTube devono aver seguito l’iter del decreto con particolare interesse, perché è alla loro piattaforma e a quelle simili che si fa riferimento, pur senza menzionarle, in più passaggi. Chiunque può caricare un video su YouTube, ma la società «dovrà dimostrare di aver investito sufficienti risorse per impedire che appaiano contenuti protetti dal diritto d’autore. Dovrà trovare soluzioni per valutarli prima che vengano pubblicati, ed eventualmente bloccarli in questa fase».
Questo spiega perché spesso un video anche solo “sospetto” viene respinto: la tecnologia di machine learning utilizza algoritmi che non sempre individuano nel modo corretto i contenuti, e nel dubbio ne impedisce il caricamento. È come se ci fosse «una presunzione di violazione del diritto d’autore», dice Sganga. Gli utenti potranno ancora opporsi alla rimozione e chiedere che il loro video appaia online, dimostrando che l’uso di materiale protetto è stato legittimo (ad esempio perché finalizzato a parodia, a citazione, a critica o ad altri scopi protetti dalla legge come eccezioni al diritto d’autore), ma l’esperta prevede che «YouTube sarà subissata di richieste, e avrà sicuramente problemi ad evaderle tutte in tempi brevi».
Ma ci sono anche altre piattaforme in cui è possibile caricare file. Per loro, se sono disponibili al pubblico dell’UE da meno di tre anni e hanno un fatturato annuo sotto la soglia dei 10 milioni di euro, come molte start up, è diverso: «Tutte le piattaforme sono invitate a compiere massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione all’uso di materiale protetto da parte dei titolari dei diritti, ma uno sforzo in termini di controllo preventivo dei contenuti che ospitano, visti i costi ingenti che comporta, non si può chiedere in modo rigido e a tutte nelle stesse modalità che si richiedono a YouTube. Anche se piccole, comunque, le piattaforme devono dotarsi di meccanismi di rimozione dei file che violano il diritto d’autore con un filtraggio successivo, su segnalazione dei titolari dei diritti, in modo tempestivo».
Se però il numero di visitatori unici mensili della piattaforma supera i cinque milioni, dovrà dimostrare anche di aver compiuto i massimi sforzi per impedire che materiale protetto già oggetto una volta di violazione segnalata sia caricato di nuovo. Le piattaforme «non hanno l’obbligo di notificare queste operazioni agli utenti, ma dovranno fornire agli utenti informazioni sul loro diritto a utilizzare materiale protetto in specifici casi protetti da eccezione al diritto d’autore, e predisporre meccanismi trasparenti e tempestivi per consentire i reclami contro il filtraggio preventivo». Per evitare l’uso di algoritmi di filtraggio, le piattaforme potranno stipulare accordi con società di gestione collettiva (come SIAE e Soundreef).
«Ora gli artisti indipendenti hanno più strumenti per farsi valere, anche con l’aiuto dell’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato, ossia il nostro Antitrust), che ha, ad esempio, il compito di monitorare il rispetto degli obblighi di trasparenza e informazione di editori, produttori, distributori e piattaforme». E potranno farlo anche gli artisti che non sono iscritti ad alcuna collecting, nel gergo definiti apolidi, i cui compensi possono altrimenti essere trattenuti dagli utilizzatori. Gioiscono anche direttori del doppiaggio, doppiatori, adattatori dei dialoghi e traduttori, fino a prima esclusi e ora esplicitamente inseriti tra i titolari dei diritti nei vari elenchi previsti dalla legge sul diritto d’autore.
Per quanto riguarda il giornalismo, Google e Facebook hanno già siglato accordi con i grandi editori per poter pubblicare i cosiddetti snippet, ossia titolo, sottotitolo e immagine delle notizie. Ora questo dovrà avvenire tutte le volte in cui un internet service provider riporti un estratto del pezzo lungo a sufficienza da far perdere la «necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità», sempre più comune tra chi passa molto tempo online.
Cosa succederà invece per quanto riguarda pratiche come il vidding e i meme, che sì utilizzano immagini e altre opere, ma non a scopo di lucro? Secondo Caterina Sganga, potrà succedere che le piattaforme le contrastino in forma preventiva, ma non sarà difficile dimostrare l’utilizzo legittimo, ossia la parodia, il pastiche, il diritto di satira o di critica. Anche se questo vorrà dire poter vedere bannato provvisoriamente un proprio contenuto proprio nel momento in cui ha tutto il potenziale per diventare virale.
Entro due anni l’AGCM dovrà pubblicare una verifica dell’impatto del decreto ma «serviranno probabilmente almeno cinque per vedere gli effetti delle varie contrattazioni». La strada tracciata è quella del buon senso, si tratta ora di applicarlo.