Negli ultimi anni la sua figura è andata incontro a una parziale opera di rivalutazione, ma per almeno tre decenni Phil Collins ha rappresentato uno dei bersagli preferiti di una parte del pubblico e di tanta critica. L’hanno definito l’uomo più odiato del rock, la popstar che non piace a nessuno, l’artefice della distruzione del sound dei Genesis. In realtà, negli anni ’80 ha fatto l’errore di non capire che la sovraesposizione avrebbe potuto renderlo ricco, ma anche indigesto. Basti pensare alla doppia partecipazione al Live Aid, negli stadi di Londra a Philadelphia, grazie a un volo in Concorde: per lui un gesto per dimostrare dedizione alla causa, per gli altri una spacconata da rockstar autoindulgente. Eppure qualcosa di buono Collins l’ha fatto anche al di fuori dei Genesis, producendo ottimi album e suonando con alcune delle menti migliori della sua generazione. Forse vale la pena riascoltare quei lavori, per non ricordare Phil Collins solo come pop star da ballate strappalacrime.
“Sky Saw” Brian Eno (1975)
Nel 1977 Brian Eno fa conoscere la tecnica delle Strategie Oblique a David Bowie, dando vita a uno dei momenti più esaltanti dell’intera storia del rock. Ma quel lavoro Eno l’ha iniziato molto tempo prima di Heroes. Se già Taking Tiger Mountain (By Strategy) ne è stato condizionato, Another Green World porta la tecnica a conseguenze ancora più estreme. Phil Collins partecipa a entrambi gli album. Difficile pensare sia solo fortuna.
“Nuclear Burn” Brand X (1976)
Fate sentire questo brano a chi vi dice di non comprendere l’importanza e la bravura del musicista Phil Collins. Pezzo d’apertura del disco di debutto dei Brand X, Nuclear Burn racchiude tutta l’essenza di un progetto nato per unire jazz, fusion e progressive. Da lì a qualche mese l’ondata punk avrebbe spazzato via certi manierismi, ma se pensate che Collins sia solo l’autore di Sussudio fareste bene a impiegare sei minuti della vostra giornata qui.
“Intruder” Peter Gabriel (1980)
È vero, il grande successo del terzo album di Peter Gabriel è da imputare a brani come Games Without Frontiers e Biko, ma il pezzo d’apertura è entrato nella storia perché considerato il primo in cui Phil Collins utilizza l’effetto sul riverbero della batteria che diventerà uno dei suoi marchi di fabbrica negli anni ’80. È proprio al gated reverb che si deve il suono di In the Air Tonight e persino uno come David Bowie ne rimarrà così colpito da utilizzarlo nell’album Let’s Dance.
“Tomorrow Never Knows” Phil Collins (1981)
Face Value è il punto di svolta assoluto per la vita di Collins. È una sorta di diario catartico del suo divorzio e lo trasforma in una delle popstar più conosciute al mondo. Per molti è un capolavoro, per altri l’inizio della fine. Contiene più sorprese di quello che si può pensare come l’ottima cover di una delle sue band più amate. In un filmato della Beatles Anthology, mentre la band ascolta vecchi demo del brano, George Harrison suggerisce di chiamare il buon Phil.
“Hand in Hand” Phil Collins (1981)
C’è un momento in Face Value in cui credi che qualcuno abbia inserito per sbaglio all’interno della tracklist definitiva due strumentali uno di fila all’altro. Probabilmente la trasformazione di Collins in pop star non era ancora giunta a pieno compimento. Per questo, ancora oggi, è spiazzante trovarsi di fronte a Droned e Hand in Hand, che sembrano più farina del sacco di Santana che di Phil Collins.
“I Don’t Care Anymore” Phil Collins (1982)
La trasformazione è completamente realizzata e del vecchio Phil sembra non essere rimasto nulla, sia nei Genesis, sia nei brani solisti. La produzione è simile a quella di Face Value, anche se è ancora più evidente la voglia di Collins di inserire sonorità r&b all’interno delle sue composizioni. Gli echi prog sono ormai scomparsi, ma, che piaccia o meno, il talento di hit maker di Phil è sempre più evidente. I Don’t Care Anymore, per cui riceve la sua prima candidatura ai Grammy, è pop a tutti gli effetti, ma non quello per cui da lì a breve inizierà a essere odiato.
“Messin’ with the Mekon” Robert Plant (1983)
La morte di John Bonham e il successivo scioglimento dei Led Zeppelin gettano Robert Plant nello sconforto. Il cantante decide di ripartire subito, ma vuole evitare di cadere nei cliché della sua vecchia band. Phil Collins, allo zenit della popolarità, prende in mano la situazione e l’anima ferita di Plant. Ne escono due album freschi e al passo coi tempi, di cui Messin’ with the Mekon, fortemente caratterizzato dal drumming di Collins, rappresenta uno degli apici.
“Easy Lover” Philip Bailey & Phil Collins (1984)
Sembra folle da pensare, ma nel 1984 Phil Collins riceveva richieste di collaborazione pari o quasi a quelle di Michael Jackson. In questo caso è Philip Bailey degli Earth Wind & Fire a trarre giovamento del suo aiuto in fase di produzione. Un giorno, Bailey chiede a Collins di scrivere un pezzo insieme e il risultato è un classico del sound del periodo che, a differenza di altri lavori di Collins, si ascolta ancora volentieri.
“Same Old Blues” Eric Clapton (1985)
Una cosa che non ha mai fatto difetto a Phil Collins è la generosità. Dopo aver aiutato Robert Plant a ripartire dopo i Led Zeppelin, pochi anni dopo Phil prende sotto braccio l’amico Eric Clapton che è in piena deriva umana e musicale. Il risultato è Behind the Sun, in cui Collins ricopre le vesti di produttore e batterista. La perla è questo blues dolente, che Eric suonerà fino in vecchiaia e segnato dal classico suono della batteria dell’ex Genesis.
“I Wish It Would Rain Down” Phil Collins (1989)
L’album … But Seriously entra nella storia soprattutto per Another Day in Paradise che, oltre a garantirgli l’ennesima vetta in classifica, porta Collins ad essere accusato di scrivere di senzatetto dal punto di vista di un milionario privilegiato quale è. Anche per questo, nel tempo, il disco ha attirato parecchio odio. Eppure questo brano merita di essere ripescato, anche solo per godersi la splendida parte chitarristica dell’amico Eric Clapton, che restituisce il favore di pochi anni prima.