«Le canzoni servono per viaggiare, non per piantare radici. C’è stato un momento in cui la musica italiana era un razzo, una navicella lanciata in alto. Tra restare dove si è e farsi un giro nello spazio, sarebbe sempre preferibile la seconda opzione», ha detto l’Albero della musica che ha ispirato Solo al sole, il nuovo album che ha scritto come una vera e propria dichiarazione d’amore ai grandi cantautori italiani. Tra i sintetizzatori e le chitarre acustiche, tra il sax e le voci, infatti, si nascondono omaggi e citazioni al Battiato più lirico, al De Gregori di Bufalo Bill, al Battisti immortale degli anni ’70, a Luigi Tenco. Abbiamo chiesto a l’Albero di raccontarci le influenze del disco, che ha condensato in una playlist esclusiva.
“Dio mio no” Lucio Battisti
«Baldan! Baldan! Baldan!. Così urla Lucio Battisti nel lungo finale strumentale di Dio mio no del 1971. Baldan è Dario Baldan Bembo, musicista di gran valore usato da Battisti per alcune sue incisioni. Eh sì, a Lucio non è mai importato molto dei canoni, anzi, credo che non gliene sia mai importato un bel niente per essere precisi. Lucio chiama il suo organista a lanciarsi nell’assolo, eccezionale peraltro. Altri artisti sicuramente avrebbero evitato di lasciare nella registrazione una cosa così inusuale, non Battisti, che aggiunge anche nella chiusura del brano “batto quattro e finiamo”. La durata del brano è di ben sette minuti, una scelta decisamente importante e rischiosa per uno che nei due/tre anni precedenti non aveva fatto altro che inanellare un successo dopo l’altro. Come se non bastasse, Mogol costruisce un testo perfetto per le ambizioni del giovane Battisti, un testo che è un doppio senso continuo e che da l’opportunità a Lucio di esaltare le sue capacità canore e il suo stile, anche quello, in netto contrasto con la musica italiana dell’epoca. Urla, sospiri, sussurri non si sentivano nel pop italiano di quegli anni, ma come sempre, di questo a Lucio non importava un bel niente».
“Conphiteor” Piero Ciampi
«Un poeta nel vero senso della parola, probabilmente “il più bravo di tutti”, così una volta ha detto Gino Paoli in un’intervista. La canzone ci parla di uno che uccide le formiche e scalcia i cani, che una volta si è arreso a un nano in una rissa e che spende sui cavalli il soldo che gli resta. In quelle frasi c’è tutta l’attrazione per le tentazioni, per il gioco e il vizio, che sappiamo essere elementi che hanno fatto parte della breve vita di Piero Ciampi. Carnalità e materialità sono messe insieme ad una irresistibile tensione al sogno e alla fuga, tipica della poesia «che tengo nel mio pugno gli insetti dell’inferno, che sogno dolci ninfe in lunghi laghi bianchi» e che forse, per la prima volta, trova spazio in una canzone italiana, almeno con questa densità e sostanza. Ho sempre trovato geniale che la musica sia in netto contrasto con il testo. L’arrangiamento ci vorrebbe portare verso un’atmosfera giocosa, quasi fanciullesca, invece è ribaltato dalle parole del testo che evocano una condotta di vita per niente raccomandabile per l’epoca, e tutto sommato anche per i nostri giorni».
“Basta na jurnate e sole” Pino Daniele
«Vedi alla voce “sinestesia”. Colori, suoni, visioni, sensazioni tattili e altro ancora popola questo brano di Pino Daniele del 1979. Nei primi secondi della canzone ti sembra di vedere la luce del sole che si allunga con i suoi raggi sull’hinterland partenopeo, potrei dire quasi «il sole sulla città» riprendendo il titolo di un celebre film di Francesco Rosi sulla difficile situazione sociale napoletana. Si deve essere dei maestri per comunicare sensazioni così vitali come la passione amorosa e la voglia di uscire a godersi la luce di una bella giornata in un modo così vivido, semplice e diretto. Le canzoni di Pino non fanno mai pesare la profondità che esprimono, ed è questo il vero miracolo. Niente paroloni, niente eccessi di intellettualismo, solo sensazione e voglia di esistere. Considero la musica di Pino Daniele una vera e propria operazione culturale, tra le più riuscite in ambito internazionale. Partire dalle radici della musica napoletana, abbracciare il blues, il jazz, la bossanova, la musica latina, la canzone d’autore italiana, e farlo con un atteggiamento da “Masaniello” è qualcosa di enorme, è qualcosa di grande a livello internazionale».
“Ciao amore ciao” Luigi Tenco
«Quanto fa male ancora oggi ascoltare questa canzone! Mi provoca sempre un senso di amarezza e di tristezza, quasi da impedirle di essere consumata dagli ascolti. Da dove viene la voce di Tenco in quella incisione? Sembra provenire già dall’oltretomba, è cinerea, quasi sepolcrale, amara, lontana, è la voce di uno che ha già capito tutte le contraddizioni di un paese travagliato come l’Italia. La canzone indossa una maschera da brano sentimentale ma è a tutti gli effetti una canzone fortemente politica. Questi sono già due motivi importantissimi per amare e portare nel cuore questa canzone, ma non sono gli unici. Come si può restare indifferenti davanti alla sincerità dimostrata da Tenco in questo brano? Oggi viviamo in un periodo dove tutti ostentano grande sicurezza. Allora ecco che fa impressione sentire Luigi dire “non saper fare niente in un mondo che sa tutto, e non avere un soldo nemmeno per tornare”. Luigi Tenco in questo brano ha cantato l’addio, la sconfitta, l’abbandono, la solitudine e il sentirsi disorientato. Non gli sarò mai grato abbastanza».
“Una giornata al mare” Paolo Conte
«Per me le canzoni tristi sono sempre le migliori. Questa è una regina della categoria. Nelle parole di Conte si mischia il racconto presente di una giornata in solitaria al mare con solo mille lire, con sensazioni non collocabili esattamente nel tempo; si tratta di ricordi, si parla di una “fotografia lontani dal mare”, immagini vaghe che illustrano l’ineffabilità della vita e soprattuto direi il suo eterno ritorno. Le nostre vite sono fatte di rimandi, di “correspondances” avrebbe detto Charles Baudelaire, frammenti di esistenze già vissute che ritornano, non necessariamente cose vissute da noi, magari dalla nostra fantasia o dai nostri avi; “più in là sento tuffi nel mare, nel sole o nel tempo chissà”, oppure “l’epoca mia è la tua, e quella dei nonni dei nonni, vissuta negli anni a pensare”. Il suo non appartenere a un genere ben preciso, e il suo spontaneo e naturale rifiuto per la contemporaneità mi hanno sempre impressionato».
“Niente da capire” Francesco De Gregori
«Questo brano fa parte della prima produzione dell’autore romano e per me è rappresentativo di quella sua vocazione internazionale che tocca l’apice col disco Bufalo Bill. Di questa sua sensibilità per il suono internazionale e di quel suo essere italiano e poco italiano allo stesso tempo forse si è parlato e scritto troppo poco, quasi come fosse un aspetto marginale del suo modo di intendere la canzone d’autore. Niente da capire parte come una timida ballata folk alla Dylan ma finisce per allargarsi sempre più nelle strofe successive fino ad apparire quasi come un pezzo psych-folk americano, con la voce del giovane Francesco annebbiata nel riverbero e quei coretti femminili dal sapore mistico che richiamano i primi dischi di Leonard Cohen. Capelli biondi e occhi azzurri come Arthur Rimbaud, spirito fiero, indipendenza artistica assoluta, questo era il primo Francesco De Gregori, esemplare raro per raffinatezza, cultura e gusto».
“La torre” Franco Battiato
«Mi piacciono le canzoni che sono anche in qualche modo dei manifesti. La torre è considerato solitamente un brano secondario della produzione di Franco Battiato ma è un esempio, tra i tanti della sua discografia, della sua voglia di essere contro e opposto a tutto quello in voga, essere distante sempre dalla stupidità e dalla vacuità. Tutto ciò è però raccontato con la giusta dose di severità e una grossa componente di ironia, tipica dei dischi di Battiato di quegli anni. All’aria tutto! È questo che dice in questa canzone dell’album L’Arca di Noè, il mio preferito insieme a L’era del cinghiale bianco. E poi che soddisfazione in quest’epoca piena di personaggi saccenti che affollano i talk show, sentire cantare nell’apice della canzone “si salverà chi non ha voglia di far niente e non sa fare niente, chi non ha voglia di far niente”, oppure “giù dalla torre, butterei tutti quanti gli artisti, perché le trombe del giudizio suoneranno per tutti quelli che credono in quello che fanno”. Manca oggi un po’ di sana cattiveria nella musica italiana».
“Anidride solforosa” Lucio Dalla
«Uno dei gioielli della collaborazione Dalla-Roversi. In questo brano c’è la provincia, la nube tossica che la nasconde, e le amate visioni sul futuro che sempre percorrono la discografia di Lucio Dalla. Anidride solforosa parla di un futuro fatto di “elaboratori che hanno per sorte di aiutare l’uomo a vincere la morte”. Non so se è andata esattamente così, ma non è questo il punto. Quello che conta è per esempio che la parte musicale del brano è struggente e unisce con mirabile armonia le atmosfere della provincia italiana con i suoni più elettronici dei sintetizzatori, un abbraccio tra la tradizione e il futuro. Sperimentatore e visionario come pochi nella storia della nostra musica».
“Donna di fiume” Claudio Lolli
«È semplicemente una canzone di grande intensità poetica. Una canzone d’amore e contemporaneamente di dolore. L’atmosfera del brano è straniante e onirica, quasi surreale, del resto come tutto l’album da cui è tratto Canzoni di rabbia. In Donna di fiume c’è tutto il talento del poeta Claudio Lolli. “Credo che un amore così non si perda per strada, gli occhi degli altri per quanto ti frughino non sanno capire, che la dolcezza preziosa che nascondi tra i denti, è la ridicola e meravigliosa discesa di un uomo che impara a non morire da solo”. Non credo ci sia bisogno di dire altro».
“Arrivederci” Umberto Bindi
«L’ultimo brano non può che essere una canzone di saluto. Vorrei che oggi nella musica ci fosse anche solo un 10% della classe e della signorilità che si respirano in questo pezzo. Una canzone che narra un addio, ma senza volerci pensare troppo, “con una stretta di mano, da buoni amici sinceri, ci sorridiamo per dire arrivederci”. È una canzone triste come quelle che piacciono a me, musicalmente atipica per l’epoca, scritta da uno dei più grandi autori italiani, spesso ingiustamente sottovalutato. Canzone d’altri tempi, piena di passione e di sofferenza amorosa. Chi ha vissuto un addio non può che rimanere intrappolato nell’atmosfera di questa perla della musica italiana d’autore».