Dopo la partenza onirica di Summer on a solitary beach si ripiomba pesantemente sulla terra. Tanto sfocate e ipnotiche erano le tessiture del brano precedente quanto incollate alla solida realtà sono le argomentazioni di Bandiera bianca, che è il primo pezzo a svelare in anteprima La voce del padrone. Il brano viene infatti pubblicato come singolo il 17 settembre 1981, quattro giorni prima dell’uscita dell’album, e presentato alla Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia, con un coro di finti Madrigalisti interpretati da una serie di gondolieri.
Inutile dire che fu shock: ai miei occhi preadolescenti, che videro l’alieno sbarcare definitivamente sulla terra con il suo serissimo vestiario, e per gran parte del pubblico italiano che si trovò davanti a questo bizzarro personaggio che cantava un testo poco meno che astruso accompagnato da un coro maschile tanto buffo quanto solenne. Chi aveva mai visto qualcosa del genere?
Di Bandiera bianca Franco gira anche un videoclip, il terzo di una serie da lui diretti inaugurata da L’era del cinghiale bianco e proseguita con Up patriots to arms. Caratteristica di questi brevi filmati è il loro essere estremamente poveri, da tutti i punti di vista. Girati con pochissimi soldi, effetti speciali casalinghi e l’ausilio, come comparse, di svariati amici. Con un apparato teatrale che ancora una volta riprende le esperienze di Baby sitter e Cinema Astra: sguardi fissi, immobilità, scene enigmatiche a pioggia.
Nel video di Bandiera bianca le cose si fanno leggermente più movimentate: a un Franco in primo piano (o seduto su una sdraio) a interpretare il brano, si alternano spezzoni di pubblicità televisive, partite di calcio, scene di guerra, telegiornali e vecchi film. In mezzo a tutto ciò le scene di un pranzo in un cascinale di campagna, con ospiti Giusto Pio, la mamma e il fratello di Franco e altri intenti a mangiare, brindare e cantare in allegria mentre il Nostro, chino sul tavolo con una mano sugli occhi, mette in mostra la sua insofferenza per manifestazioni del genere. Il tutto con ampio uso di fermo immagine e ralenti.
Nelle settimane successive all’uscita dell’album, Battiato continuerà a presentare Bandiera bianca in varie trasmissioni televisive. Gli ordini della EMI sono perentori, il disco va lanciato al meglio, in tutte le occasioni mediatiche possibili, visto che si tratta di far cassa. Anche se Franco ne farebbe volentieri a meno cerca di rendere sempre queste apparizioni qualcosa di unico, del resto la lezione del vecchio compare Gianni Sassi è stata assorbita bene: l’importante è colpire immediatamente l’attenzione. Eccolo quindi presentarsi a Discoring, trasmissione settimanale in onda sul primo canale Rai che lancia le novità discografiche del momento, addirittura dietro a un podio elettorale invaso dai microfoni. In tale contesto Battiato intona in playback il brano come se dovesse convincere una schiera di elettori a votarlo, fino al momento in cui tira fuori il proverbiale megafono del ritornello. Poco dopo scatta il coro composto da una serie di austeri musicisti de La Scala diretti da Giusto Pio.
La scelta del podio non è un caso, a modo suo Bandiera bianca è un pezzo politico. Non come lo si intende solitamente, è chiaro, è politica alla Battiato che mira anzitutto allo sviluppo spirituale dell’uomo, caposaldo sul quale poggiare tutte le lotte sociali del caso.
Franco non è nuovo a invettive di vario genere, negli anni Settanta si è spesso scagliato contro la musica vista solo come mero intrattenimento, a modo loro anche i dischi più difficili della seconda metà di quel decennio sono politici, perché spingono all’attenzione, fanno sì che l’ascoltatore drizzi le orecchie e si metta in gioco, che vada incontro alle difficoltà per riuscire a evolvere.
Il pezzo che finora più si è spinto a mettere in scena ciò che Franco proprio non digerisce è Up patriots to arms, apripista del precedente Patriots e singolo dal moderato successo. Il testo è un’invettiva contro la stupidità latente che caratterizza il genere umano, a partire dai grandi temi della società (in un postulato quasi pasoliniano: «Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia»), della scienza («La fantasia dei popoli / Che è giunta fino a noi / Non viene dalle stelle») e della religione («L’ayatollah Khomeini / Per molti è santità / Abbocchi sempre all’amo»). In tutto questo Battiato non può fare a meno di puntare il dito contro l’uso sconsiderato che si fa dell’arte musicale quale puro mezzo di sfruttamento economico nelle mani di gente senza scrupoli («Mandiamoli in pensione / I direttori artistici / Gli addetti alla cultura»), a volte gli stessi musicisti («E non è colpa mia / Se esistono spettacoli / Con fumi e raggi laser / Se le pedane sono piene / Di scemi che si muovono»). In mezzo a tutto ciò il contagioso ritornello «Up patriots to arms / Engagez-vous! («Su patrioti alle armi, impegnatevi!») / La musica contemporanea / Mi butta giù», nel quale musica contemporanea va letta nella doppia accezione di musica del presente e musica classico-contemporanea. La presa di posizione contro quest’ultima riflette il disamore che da un po’ di tempo Franco nutre nei confronti di un genere troppo freddo e arrovellato su se stesso per comunicare.
Nel 1981 Bandiera bianca si presenta come una sorta di «Up patriots to arms parte seconda», non tanto a livello musicale quanto di messaggio. Se però nel brano dell’anno precedente l’incitazione a combattere la stupidità era qualcosa di battagliero e ottimista, adesso è come se Battiato avesse capito che non c’è forza che possa contrastare l’oceano di brutture nel quale l’essere umano è sommerso. Non resta quindi che issare bandiera bianca e dichiarare la propria resa.
L’incipit arriva subito bello deciso con Filippo Destrieri a manovrare il sanguigno organo Hammond e, allo stesso tempo, gli aloni metafisici forniti dall’Oberheim OB-Xa. Il tutto sopra un solido ritmo regolare dettato da basso e batteria. L’introduzione non nasce però in questa maniera, come ricorda Stefano Pio: «L’intro prevedeva almeno quattro o cinque varianti, con diversi fraseggi. Alla fine ha prevalso quella scelta che riprende la melodia del canto di Franco».
Sempre a proposito dell’introduzione c’è anche il ricordo di Filippo Destrieri: «Franco a un certo punto, a casa sua col pianoforte, mi disse “senti questo pezzo”; fece due note do-si-do-do-si, era Bandiera bianca e io pensai subito “qui ci vuole l’Hammond”». L’organo è infatti protagonista di tutto il pezzo, con un piglio deciso ed energico, perfetto per spingere le parole cantate da Franco.
Il brano è basato su uno dei più riusciti collage verbali del Nostro, abbandonati quelli musicali degli anni Settanta è con tutta una serie di frasi disparate, collegate senza apparente nesso logico, che Battiato cerca di mettere in scena le contraddizioni della società moderna.
Le prime due strofe citano un vecchio eroe del Nostro: Bob Dylan. All’epoca del singolo Il mondo va così (1967), Franco aveva preso infatti una sbandata per certa canzone di protesta cara al menestrello americano. Durerà poco e la protesta si esplicherà, come si è visto, con altre modalità, ma Dylan resterà uno degli amori musicali del Nostro che qui cita le sue Mr. Tambourine Man e The Times They Are a-Changin’, con l’esortazione a rimettersi la maglia perché i tempi stanno cambiando e non è più il momento di lottare. Siamo infatti all’inizio degli anni Ottanta e l’aria che tira è molto diversa da quella dei due decenni precedenti: c’è voglia di disimpegno, di divertimento, di non pensare ai brutti momenti vissuti dall’Italia fino a ora. Il famoso slogan «Il personale è politico» non ha più senso per nessuno.
Immediatamente dopo viene citata la Figli delle stelle di Alan Sorrenti, già apprezzato da Battiato ai tempi dei suoi esordi progressive. Sorrenti si è poi dimostrato assai più attratto dalle banconote piuttosto che dalla ricerca musicale, diversamente da Franco, che a lungo si è guardato bene dall’accettare compromessi. La citazione della hit di Sorrenti serve quindi a rimarcare quanto il potere del danaro sia grande, quanto il facile guadagno faccia gola a chiunque, anche all’artista all’apparenza più impegnato (anche a se stesso, chiaramente).
Come non prendersela a questo punto con una delle manifestazioni televisive tra le più ammorbanti come le tribune politiche? Questa modalità di espressione è qualcosa del tutto inedito nella poetica del Nostro, in alcuni tratti de La voce del padrone è come se si sdoppiasse: c’è il Franco che fa cantare la propria anima e quello che si fa portavoce di un sentire comune riguardo a diversi argomenti, pur magari non sentendoli del tutto suoi. Un vero colpo di genio che gli permette di far sì che una parte del pubblico si senta subito rappresentato da ciò che egli canta.
A questo punto Battiato parla dello smodato culto della personalità, del look. Cita se stesso, analizza il personaggio che ha deciso di mettere in scena in questo momento. Come se si guardasse allo specchio canta degli occhiali da sole utili a rafforzare il carisma e sintomatico mistero, cosa che gli sta riuscendo in pieno. Come si è visto se c’è una cosa che arriva immediatamente di tutta l’operazione La voce del padrone è proprio questa figura enigmatica e fascinosa. Tra l’altro nel 1981 chi ha mai sentito parlare di carisma? Io sicuramente no. Cos’è? Come si fa a definirlo? Chi è carismatico e chi no? La definizione sfugge, carismatico può essere uno sguardo, un modo di porsi, di muoversi, di parlare, di atteggiarsi. Il carisma spesso attrae più della bellezza, e Franco ne sa qualcosa.
Mentre la musica continua nel suo incedere la scena si sposta in casa Pio, luogo, come si è visto, della messa a punto de La voce del padrone. Stefano Pio: «Quando Franco veniva a casa nostra per lavorare non era raro che assistesse a diverse liti tra mio padre, mia sorella e mia madre, alla quale stavano spuntando i primi capelli bianchi. Quando tempo dopo ritrovammo in Bandiera bianca la frase “Com’è difficile restare padre / Quando i figli crescono e le mamme imbiancano” sapevamo a cosa si riferiva».
Questa parte di testo è anche una citazione della canzone Tutte le mamme del mondo (1954) di Gino Latilla, che recita: “E gli anni passano, I bimbi crescono, Le mamme imbiancano; Ma non sfiorirà la loro beltà!”.
Dalle beghe familiari ai più drammatici abusi del potere. Un argomento molto caro a Franco, quello di squallide figure dalla vita misera che usano il potere politico, economico, a volte anche quello del successo artistico, come arma puntata contro i più deboli. Questi temi anticipano il capolavoro di Povera patria, che nel 1991 diventerà la più alta canzone politica mai concepita in Italia. Ci vorrà del tempo e vari aggiustamenti ma quando Franco si lancerà definitivamente a dire la sua in quell’ambito sbaraglierà tutti. La sua spiccata sensibilità e la sua ampia visione non temono concorrenti.
E arriviamo al ritornello. Ai discografici deve essere venuto un colpo quando hanno ascoltato questo brano, pronti a silurare il «brutto nasone». Da che mondo è mondo il singolo scelto da un album ha il ritornello che arriva nel più breve tempo possibile, sono le dure leggi del pop, specie dopo che le radio commerciali hanno preso a spadroneggiare. Il pubblico deve essere immediatamente avvinto al momento culminante, il punto che poi potranno ricordare e canticchiare, l’hook che porterà la canzone al successo. In tutto questo Franco se ne frega e sovverte le regole. Dopo un lungo testo carico di invettive il ritornello si concede il lusso di fare la sua comparsa a 2:05. Un caso più unico che raro, altri in questi due minuti e rotti ci avrebbero iniziato e concluso una canzone. Battiato no, prima dice tutto, ma proprio tutto quello che ha da dire, poi lascia che il brano sfoci nella presa di coscienza definitiva.
Ora la musica è cambiata, una sorta di flash sonoro ha mutato l’incedere ritmico che adesso è composto da tre battute in 3/4 e due in 4/4, con Alfredo Golino che usa solo cassa e charleston del proprio strumento in una sorta di sospensione che crea attesa. Sul tempo irregolare poggia il ritornello che Franco canta usando un megafono (espediente già utilizzato nel singolo a nome Astra), come se dovesse spiegare la sua voce all’interno di un corteo per far sì che il messaggio giunga il più lontano possibile.
Il momento clou di Bandiera bianca contiene una nuova citazione, quella della poesia L’ultima ora di Venezia, scritta nel 1849 dal poeta e patriota Arnaldo Fusinato: “Passa una gondola Dalla città: ― Ehi! della gondola Qual novità? ― Il morbo infuria… Il pan ci manca… Sul ponte sventola Bandiera bianca!”.
Fusinato dedica la poesia alla sua Venezia ridotta agli stenti dopo una lunga insurrezione contro l’Austria, Franco invece usa questi versi per ribadire che non c’è speranza per un mondo migliore, meglio arrendersi all’evidenza e poi fuggire il più lontano possibile.
Per donare ancora più potenza allo slogan «Sul ponte sventola bandiera bianca» la frase viene poi ripresa solennemente dai Madrigalisti.
Concluso il ritornello si ricomincia con le strofe e Battiato butta lì una di quelle sue frasi destinate a scolpirsi in maniera perenne nell’immaginario collettivo: «A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie». Siamo di nuovo alle prese con la rappresentazione di un sentire pubblico, più che di un sentimento personale. Battiato approfondisce: «Non sempre sono ideologicamente d’accordo con quello che dico. Prendiamo ad esempio il verso “A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata”, questo non è vero ma so che in un’epoca come la nostra questi versi stimolano l’ascoltatore, c’è un riconoscimento, un bisogno del trasferimento di certe tensioni grazie alle parole».
Questo escamotage non gli impedisce però di subire critiche, anche feroci, per avere denigrato il colosso tedesco e il crooner americano. Ma Franco come sempre se ne frega e procede dritto per la sua strada, tanto ormai ha colpito, ha lasciato un segno imperituro, ha fatto parlare di sé, nel bene e nel male.
Subito però si allontana dal dire comune e torna a se stesso, al suo sentirsi distante da un mondo fatto di caos, al suo desiderio di estraniarsi, elevarsi e fuggire. Purtroppo il modo dell’indifferenza di cui canterà nel 2008 (in Stage door) a volte è difficile da adottare, specie se intorno ancora si sente l’eco degli spari, lo strascico dei lunghi anni di terrorismo dai quali l’Italia del 1981 sta faticosamente cercando di uscire.
Nel frattempo un mantra corale (realizzato da Battiato stesso) ha preso a intonare una serie di “Minima immoralia”. Il riferimento è al filosofo/sociologo Theodor Adorno e alla sua Minima Moralia (Riflessioni sulla vita danneggiata, 1954), critica all’uomo moderno e alla sua mancanza di autonomia e senso proprio, che in Italia viene integrata dal volume Minima imMoralia: Aforismi tralasciati nell’edizione italiana.
A compimento di tutta l’invettiva si arriva all’essere sommersi da «immondizie musicali», dalla musica trattata come merce in una corsa al ribasso, con armonie e melodie sempre più banali per arrivare nel minor tempo al maggior numero di persone possibile, dalla quantità al posto della qualità, dalla volontà di colpire gli ascoltatori nei loro istinti più bassi, più tesi al mero divertimento o alla facile emozione, da brani che non aspirano più a lasciare un segno duraturo ma si accontentano di essere consumati in fretta e poi dimenticati per passare ad altri, e poi altri ancora.
Da qui non può che risuonare il fatalista ritornello, arricchito da una coda che cita, non a caso, The end dei Doors mentre il mantra di “Minima immoralia” risuona all’infinito su una nuova coltre di vibrafoni. Donato Scolese: «Per il finale di Bandiera bianca Franco mi ha chiesto di suonare una cosa caraibica, scherzosa».
Dopo tante tristi consapevolezze forse è quello che ci vuole.
Tratto da Segnali di vita: la biografia de ‘La voce del padrone’ di Battiato di Fabio Zuffanti, con introduzione di Morgan e prefazione di Aldo Nove (Baldini + Castoldi, 256 pagine, 17 euro)