Nel febbraio del 1968 i Beatles trascorsero alcune settimane a Rishikesh, ai piedi dell’Himalaya, per imparare le basi della meditazione trascendentale. A ospitarli fu l’ashram di Maharishi Mahesh, maestro di yoga che avevano conosciuto l’anno precedente in occasione di un seminario tenuto a Bangor, in Galles. Durante il soggiorno indiano, interrotto in seguito alle accuse di molestie su alcune ospiti a carico del guru, composero anche canzoni che sarebbero finite sul loro nuovo disco uscito nello stesso anno, il White Album. Oggi quel soggiorno è al centro di The Beatles and India, un documentario che arriverà nelle sale italiane all’inizio del 2022.
Grazie alle ottime doti di pr di Maharishi, i Beatles non erano le uniche celebrità presenti nell’ashram: assieme a loro c’erano infatti anche Donovan, Mike Love dei Beach Boys e Mia Farrow con la sorella Prudence, che ispirerà la Dear Prudence contenuta nel doppio bianco. Fu proprio un casuale incontro con Mia, nella hall del lussuoso hotel Ashoka di Nuova Delhi, a condurre a Rishikesh l’unico italiano presente durante il soggiorno dei Beatles. Si tratta di Furio Colombo, reduce da un servizio in Vietnam, che ha più volte raccontato il suo incontro indiano con la band. L’inviato della Rai colse l’occasione per filmare il gruppo in un contesto decisamente inedito.
«A John Lennon» ha raccontato nel 2013 in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, «interessava e piaceva parlare di Berio, di musica contemporanea, di musica d’opera (una sua passione mai rivelata). Paul McCartney era il più pronto allo scherzo goliardico e a lui, meditazione o non meditazione, niente sembrava serio. George Harrison rispondeva quasi solo con la chitarra. Spuntavano qua e là motivi di nuove canzoni che sarebbero entrate nel disco successivo».
Ajoy Bose, classe 1952, è un apprezzato columnist politico per diverse testate indiane. The Beatles and India, accompagnato da un doppio album in cui diversi musicisti indiani rileggono le canzoni della band, è il suo primo lavoro cinematografico. «Tre anni fa» racconta al telefono da Londra «ho pubblicato un libro intitolato Across the Universe: The Beatles in India. È uscito per la Penguin e ha suscitato un certo interesse. Per questo mi è stato proposto di girare un documentario. Per me è stata l’occasione di approfondire una storia che avevo vissuto da fan: quella dell’incontro fra il mio Paese e il gruppo che in quel momento era il più famoso del mondo. È stato uno scambio. Loro erano stufi della cultura capitalistica occidentale e l’India era il posto in cui andare alla ricerca di una pace spirituale. Per noi giovani indiani invece i Beatles erano un simbolo della cultura moderna».
Ma com’era vivere da adolescente a Calcutta alla fine degli anni ’60? «Credo che le mie passioni, a partire da quella per i Beatles, non fossero tanto diverse da quelle dei miei coetanei occidentali», racconta. «C’era però più di un motivo di tensione con la generazione dei nostri genitori. Basti pensare al nostro look: a mio padre non piaceva che io portassi i capelli lunghi. Lui era un impiegato statale che aveva iniziato a lavorare ai tempi dell’impero anglo-indiano. Gli inglesi a cui era abituato erano ben diversi dai Beatles. In quel periodo molti di noi erano appassionati della musica che arrivava dalla Gran Bretagna e dagli Usa. Poco più tardi, nel 1972, ci fu anche un concerto dei Led Zeppelin a Mumbai».
Bose si riferisce a un live improvvisato da Jimmy Page e Robert Plant allo Slip Disc, un piccolo club nel quale capitarono quasi per caso, di ritorno da un breve tour in Giappone. «Io mi sono messo alla batteria», ha raccontato Plant dieci anni orsono in un’intervista rilasciata al Guardian, «era l’unico club della città che ne aveva una. In un modo o nell’altro giravano un sacco di sostanze illecite ed eravamo veramente fuori. Io sono un batterista a dir poco mediocre ma in tanti dicono che il rock in India è nato con quel concerto. Insomma, per un motivo o per l’altro abbiamo lasciato il segno».
Bose conferma che, nonostante la passione di tanti giovani, nell’India in cui è stato ragazzo non esisteva una vera e propria scena rock, e anche procurarsi i dischi non era facile: «Non ce n’erano molti e arrivavano sempre con un certo ritardo rispetto alle uscite ufficiali. La cosa migliore che ti poteva succedere era che un amico tornasse da un viaggio in Inghilterra con qualche disco comprato là. Spesso era il modo più veloce per ascoltare gli album nuovi ma certamente non era la cosa più comoda».
Il documentario alterna momenti comici, come quello in cui Ringo mostra il suo bagaglio pieno di scatolette di fagioli che si è portato da casa, nel timore di non gradire troppo il cibo indiano, a situazioni decisamente tese, come molte di quelle riguardanti Maharishi Mahesh, con il quale alla fine volano gli stracci, con tanto di dedica velenosa nella Sexy Sadie contenuta nel White Album: «Sexy Sadie, che cos’hai fatto? Ti sei presa gioco di tutti».
È stata una vita piena di controversie, quella del guru scomparso nel 2008, fondatore di un vero e proprio impero e assai abile nel monetizzare i propri insegnamenti e l’interesse da essi suscitato (durante il soggiorno dei Beatles a Rishikesh erano presenti decine di altri giornalisti). «L’idea che mi sono fatto è che non fosse una persona malvagia», dice Bose, «ma un uomo con luci e ombre, come tutti noi. Certo con i Beatles si è lasciato male, in particolare con John e George, perché gli altri due erano già tornati a casa prima di sapere delle accuse».
Con Lennon l’occasione di riconciliarsi non si sarebbe più presentata, mentre la pace con Harrison è stata sancita nel 1991, durante un incontro in Olanda in uno dei suoi centri per l’insegnamento della meditazione trascendentale. Dieci anni dopo, le ceneri del chitarrista sarebbero state disperse nel Sangam, il luogo sacro in cui le acque del Gange si incontrano con quelle dello Yamuna, a testimonianza del legame profondissimo fra George e l’India.