6 giugno 1983. Pesaro, la mia piccola e accomodante Pesaro, la cittadina che avevo corrotto con la mia vita turbolenta e da tempo alla deriva, era ormai incapace di contenere la mia vitalità. I Death SS erano stati sepolti, e per me era arrivato il momento di saldare il conto e cambiare direzione. Nessun vincolo con il passato, solo nuovi orizzonti di oscurità, nuovi legami di sangue, senza nomi, senza volti a cui dover spiegare qualcosa.
In quel periodo, i pensieri si mescolavano e accavallavano senza sosta. Ma la prima cosa che avevo capito di dover fare era creare un nuovo mondo, trovare uno spazio vergine da sentire mio. Andare senza fuggire, cambiare senza voltarmi, ma solo per ricominciare. E Firenze, da sempre nei miei pensieri, mi si era rivelata in tutto il suo splendore e in tutto il suo fascino. Cultura, magnificenza e mistero, uno scrigno ideale dove trovare pace e allo stesso modo stimoli per gettare le basi e ricominciare, questa volta come se fossi una persona nuova, evitando errori ed eccessi del passato.
Il passaggio ha richiesto tempo, un’applicazione emotiva che non mi apparteneva. Non si entra nel cuore di una città con un semplice trasloco, bisogna acclimatarsi. Prima di stabilirmi definitivamente a Firenze, per un lungo periodo ho vissuto quasi da nomade, cercato la casa adatta, ho tessuto una ragnatela di nuove amicizie, persone di cui fidarmi dopo un periodo di forte stress fisico e psichico. Ci sono voluti quasi due anni per approdare nel nuovo lido. Cosa che finalmente avvenne, agli inizi del 1985.
Tra le tante case visitate durante la mia ricerca di un alloggio, sono stato sedotto da un grande appartamento antico in Via Ghibellina, nel quartiere di Santa Croce. La sua disposizione mi ricordava qualcosa di atavico, sentivo che dentro quelle mura erano successe cose strane. Forse per questo, nelle zone delle cantine avevo notato una botola oltre una porticina fatiscente sempre chiusa, e ne ero rimasto incuriosito.
Com’è ovvio, sapere cosa nascondesse era diventato un chiodo fisso nella mia mente. Avevo così chiesto informazioni al proprietario, il signor Dino, e avevo scoperto che nel sottosuolo dello stabile c’era un ampio locale inaccessibile da anni, pieno di terriccio e liquami, accumulatisi a causa dell’alluvione del 1966, un evento tragico la cui gravità ebbe risonanza mondiale. Naturalmente i suoi tentativi di dissuadermi dal visitarlo non avevano fermato la mia ossessiva curiosità di scoprire cosa si celasse in quei melmosi e oscuri meandri (in fondo, il tizio non poteva sapere che il Silvestri aveva una lunga esperienza di visite notturne a ossari e catacombe); e infatti il Dino, pur senza risparmiarmi il solito corollario di raccomandazioni di prudenza, mi aveva consegnato la chiave del rugginoso chiavistello della porticina di legno, che io avevo già battezzato “la porta dell’Inferno”.
Non avevo perso tempo e la sera stessa, armato di alcuni attrezzi da lavoro recuperati dal garage di Dino, che gestiva un’impresa edile, ero riuscito ad avere la meglio sul fango e ad aprire la grande botola rettangolare al centro della stanzetta buia. Da quel pertugio era venuto fuori un nauseabondo puzzo di muffa, che comunque non mi aveva scoraggiato. Avevo infatti intravisto una scalinata di pietra avvolta dalle tenebre, occlusa dopo pochi gradini da grossi cumuli di terra e melma secca che rendevano praticamente impossibile l’accesso al locale sottostante.
Ma non mi ero perso d’animo, e avevo coinvolto in questa avventura lo stesso padrone di casa e alcuni suoi amici che, una volta superata l’iniziale titubanza, si erano rivelati più esaltati di me; così, dopo giorni di intensi “scavi archeologici”, armati di pala e grandi sacchi di plastica neri per l’immondizia, eravamo riusciti a liberare la scalinata per accedere al corridoio del sotterraneo. Sempre e rigorosamente in piena notte, per non dare nell’occhio, caricavamo i sacchi neri in macchina e, nel limite del possibile, ce ne liberavamo dove capitava in vari cassonetti di Firenze, in diverse zone della città.
Nonostante un’illuminazione precaria, mi ero reso subito conto di come il locale sotterraneo fosse ampio, con un corridoio centrale e tre stanze con soffitto a volta scavato nella pietra. Tutto era completamente ammuffito e ricoperto di fango, ma l’insieme era comunque molto suggestivo e mi ricordava i vecchi ossari dei cimiteri visitati in passato.
Mi era giunta come una voce: «Il tempo dell’attesa è terminato!». Avevo trovato il luogo adatto per la rinascita dei miei Death SS, ed era proprio sotto l’appartamento dove vivevo. Come sempre, nulla si era compiuto per caso. Giorno dopo giorno, grazie all’aiuto di Dino e di un paio di amici ben più esperti di me in questo tipo di lavori (che sicuramente maledissero il momento in cui si erano lasciati convincere a cimentarsi nell’impresa), eravamo riusciti a rendere perlomeno decente il sotterraneo, anche se non esattamente salubre. Il puzzo di muffa infatti era sempre intenso, le pareti di pietra molto umide e scivolose e il pavimento restava comunque fangoso e ovunque passeggiavano famigliole di scorpioni e vermi di ogni tipo. Ma ai miei occhi il messaggio veicolato da tutta quella cupezza voleva dire solo una cosa: ero tornato a casa…
Individuata la mia cripta personale, dovevo arredarla. Impresa completata con un magnifico girovagare alla ricerca di oggetti adatti a rendere suggestivo il posto, un mix di praticità e simboli misteriosi. Ora si trattava solo di trovare dei nuovi compagni di avventure.
Con Aldo Polverari avevo sempre mantenuto i rapporti, ci incontravano ogni volta che tornavo sul luogo del delitto, ovvero a Pesaro, per salutare mamma e papà. Aldo aveva fatto amicizia con un bizzarro gruppo di ragazzi più giovani di lui, che si professavano fan dei Death SS e suonavano in una band “demenziale”, i Capillary, che in qualche modo mostravano il lato ironico del rock oscuro.
Li avevo incontrati una sera d’estate, trovandoli molto simpatici e decisamente bizzarri. Ho sempre detestato il rock demenziale, ma devo ammettere che musicalmente erano molto preparati, specialmente il leader, Mario, in arte Von Braun, che studiava pianoforte al conservatorio Rossini (e infatti sarebbe diventato un famoso compositore per cinema e TV). Erano affascinati dall’horror e dal lato misterioso della vita, e forse per la giovane età, vivevano il tutto in modo goliardico e sicuramente con minore serietà rispetto ai Death SS, pur ispirandosi a quanto avevamo fatto noi. I ragazzi della band frequentavano infatti di nascosto ossari, chiese sconsacrate e cimiteri per ricavarne materiale da portare sul palco con l’intenzione di allestire dei piccoli spettacoli splatter/horror. Non si può negare che avessimo fatto scuola.
Curiosamente, quando vennero a sapere della mia intenzione di ricominciare con la band e della nuova cripta che stavo allestendo, pensarono bene di omaggiarmi di un gran numero di enormi sacchi della spazzatura ricolmi di teschi, tibie e femori, da loro orgogliosamente raccolti come bottino di guerra durante il notturno peregrinare nelle lande più oscure del Montefeltro. Ovviamente, mai regalo fu più gradito.
Tornai a Firenze con la vecchia Fiat 126 di mio padre ricolma dei resti di antichi fraticelli che ondeggiavano a ogni curva. Anche se incontrai un paio di posti di blocco, per fortuna non venni mai fermato dalla polizia stradale. Sarebbe stato complicato spiegare la provenienza di varie ossa vere che, insieme a teschi altrettanto reali, ballavano allegramente sui sedili posteriori.
Il nuovo “materiale d’arredo” rese la mia cripta personale una cupa meraviglia. Le luci rosse creavano un’atmosfera tetra, mentre candele sparse e incensi, oltre ad attenuare la puzza di muffa, rendevano le sale affascinanti. Il tutto veniva completato da lumini e corone mortuarie prelevate personalmente dai rifiuti di un cimitero della zona.
La stanza più grande, quella di sinistra, era completamente coperta di vernice idrorepellente nera e sul pavimento avevo messo del linoleum che dava un effetto marmoreo. Naturalmente era stata scelta come sala prove, dovevamo sentirci avvolti da oscurità per rendere al meglio. Con i primi guadagni ricavati dal mio lavoro, acquistai a rate un vecchio impianto voci della Montarbo e un microfono Shure Beta 58a, che trascinai e montai, non senza fatica, all’interno della cripta.
I tasselli stavano andando al loro posto. Alcune volte visitavo le stanze di notte, da solo. La luce fioca mi aiutava nella ricerca della concentrazione, nella consapevolezza di raggiungere l’obiettivo che agognavo: portare nuovamente in vita i Death SS. Ora dovevo cercare i nuovi musicisti, i nuovi mostri, le nuove anime con cui condividere i miei incubi. I Death SS sarebbero tornati dall’oltretomba per camminare sulla Terra.
Tratto da La storia dei Death SS (1987-2020) di Steve Sylvester con Gianni Della Cioppa e Stefano Ricetti, Tsunami Edizioni