Nessuno rappresentava lo spirito del tempo come i Public Enemy nell’anno in cui Nelson Mandela uscì di prigione. Era il 1990 e il gruppo pubblicava il terzo, decisivo album. Le canzoni della band e il logo col b-boy nel mirino erano ovunque, al pari dei ciondoli a forma d’Africa che si vedevano al collo dei ragazzi in ogni città d’America. Se It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back del 1988 rappresenta la base dei Public Enemy, Fear of a Black Planet di due anni dopo ne è l’apice. Oggi, mentre negli Stati Uniti si festeggia il Black History Month, è giusto riflettere su un disco terremotante che ha fatto conoscere a una generazione l’incredibile ricchezza dell’esperienza afroamericana.
Fight the Power è forse l’unico pezzo nel canone rap che immortala un anno nella prima barra: “1989, the number, another summer”. Prima ancora, si sente un estratto dal discorso del 1967 di Thomas “TNT” Todd, avvocato per i diritti civili che nell’epoca delle proteste contro la guerra in Vietnam ammoniva il suo uditorio dicendo che «le nostre truppe più addestrate, istruite, equipaggiate e preparate si rifiutano di combattere».
Il carattere documentaristico del pezzo ci sta giacché Fight the Power, grande inno commissionato da Spike Lee per il film Fa’ la cosa giusta, voleva essere l’aggiornamento post soul dell’inno del 1900 Lift Every Voice and Sing di James Weldon Johnson, altimenti noto come l’inno nazionale afroamericano.
Con Fear of a Black Planet Chuck D e Flavor Flav hanno fatto ballare il pianeta non su un beat, ma sulla storia. «Ti mandavano sia in discoteca che in biblioteca», ha detto a NBC il giornalista e autore televisivo Cheo Hodari Coker. Il messaggio arrivava persino in Ontario, dove viveva Ed Robertson dei Barenaked Ladies: «Ero cresciuto nell’ambiente privilegiato dei sobborghi canadesi. I Public Enemy m’hanno fatto capire che c’era al mondo quest’enorme ingiustizia, mi hanno aperto gli occhi», ha detto in un’intervista sul trentennale di Fear of a Black Planet.
Nei ghetti, intanto, fervevano ovunque le discussioni sul potere da rovesciare. Persino dal parrucchiere. Lo sapevi che in attesa di farti un nuovo taglio di capelli avresti sentito chiacchiere su Michael Jordan, le proprietà curative del rum, Laura Winslow e Family Matters, ma pure sulle idee sul nazionalismo nero contenute nei tomi di Frances Cress Welsing ed Elijah Muhammad. Se succedeva, era perché c’era stato Fear of a Black Planet.
La musica di quel disco sembrava a volte umoristica, se non assurda. E ci stava, perché i Public Enemy si rivolgevano a tutti e Chuck D aveva un approccio ironico a temi belli tosti, specie affiancato dal giullare Flavor Flav. Ma nel 1990 la cultura esigeva sostanza e i Public Enemy gliela davano, eccome.
Com’è che all’inizio degli anni ’90 si era tanto ricettivi alla musica conscious? Intanto nei due anni precedenti i Public Enemy avevano alzato l’asticella con It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (e nello stesso anno i Boogie Down Productions avevano pubblicato il loro discone By All Means Necessary). La parola chiave era: ora basta. “Quand’è troppo è troppo” si diceva per la rabbia verso i danni fatti dalla cocaina alle comunità nere, per gli omicidi di Eleanor Bumpurs e Yusef Hawkins, per la condanna ingiusta dei Central Park Five. I ragazzi afroamericani volevano musica in grado di farli sentire forti. Volevano, 26 anni dopo il Civil Rights Act, canzoni che parlassero delle ingiustizie che subivano quotidianamente.
Il 1990 sarà pure considerato il punto più alto del rap legato al nazionalismo nero, ma c’era anche tanta gente che saliva sul carro. Non c’è bisogno di fare i nomi. Il clima era talmente bizzarro che tre anni dopo in CB4 Chris Rock faceva la parodia dei rapper impegnato in grado di mettere assieme una sola barra: “Sono nero, y’all!”.
Prendere in giro i Public Enemy invece era impossibile. Anche perché in loro c’era già qualcosa di folle grazie la presenza di Flavor Flav, laddove i finti rivoluzionari, artefatti tanto quanto i fini gangsta, insistevano ad apparire mortalmente seri – e non funzionava nelle chiacchiere dal barbiere, per non dire dell’esperienza storica degli afroamericani.
“La storia non dovrebbe essere un mistero”, diceva Chuck in Brothers Gonna Work It Out, uno dei pezzi più forti di Fear of a Black Planet. Effettivamente non è un mistero in Revolutionary Generation, quasi una tesi di dottorato sul pensiero degli intellettuali neri del passato che si chiude con cinque minuti di strana follia. Un campionamento del discorso di Jesse Jackson già usato in Rebel Without a Pause è accoppiato a un estratto di uno slogan di Mary McLeod Belthune reso popolare negli anni ’70 dalle femministe del Combahee River Collective: «Il vero valore di una razza si misura nel carattere delle sue donne». È una posizione coraggiosamente femminista per un gruppo che anni fa veniva accusato di misoginia dai critici tra cui Greg Tate.
Pezzi meno noti come Meet the G That Killed Me, War at 33 1/3 e la truculenta title track – che usano rispettivamente estratti dei discorsi di Welsing, Louis Farrakhan e Dick Gregory – sembrano uscire dallo Schomburg Center for Research in Black Culture e permettono di dialogare con alcune tra le voci più provocatorie della Black America.
Nella feroce Burn Hollywood Burn, Chuck, Ice Cube e Big Daddy Kane sembrano mettere in piedi una versione rap del programma tv Siskel & Ebert. Le preoccupazioni sulla sottorappresentazione dei neri al cinema (la versione poetica del discorso di Buggin’ Out in Fa’ la cosa giusta: «Come mai non ci sono fratelli sui muri?») diventano un elenco di figure stereotipate – infermiere, cameriere, autisti – che accompagnano l’arrivo in sala di questi supereroi rap.
911 Is a Joke trasforma il problema dei ritardi nell’arrivo dei soccorsi nei quartieri neri in una tragicommedia ballabile. Welcome to the Terrordome, invece, si apre con un terremoto di chitarre al flanger di Dennis Coffey, una dose di psichedelia e wah-wah che spazza via tutto come un vento potente. Nella sua strofa Chuck D è assieme forte e preoccupato per lo stato del mondo. È come se il rapper vivesse col peso di 40 milioni di neri americani sulle spalle. È stato criticato per un verso in cui si paragona a Gesù, ma dal punto di vista musicale il pezzo resta uno degli episodi più avventurosi della storia dei Public Enemy.
È chiaro che Fear of a Blank Planet è il disco gemello di It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back. A detta di molti, il secondo album dei Public Enemy è il loro migliore. È il primo disco rap preso sul serio dalla critica, il loro Sgt. Pepper’s. E il suo muro di suono ha influenzato artisti per un decennio.
In un’intervista a Chuck D, il compianto podcaster Combat Jack ha spiegato che effetto gli ha fatto sentire per la prima volta pezzi come Night of the Living Baseheads dalle autoradio di macchine costose: gli ha fatto credere che il gruppo fosse composto da spacciatori. La cosa, ha spiegato, dice molto del rispetto di cui i Public Enemy godevano per la strada, giacché la loro musica aveva il folle dinamismo del crack che girava negli anni ’80 e che loro stessi denunciavano.
È assurdo pensarci adesso, ma It Takes a Nation è stato un disco sottovalutato. Chuck ha detto che l’intro e gli audio in cui si sente il pubblico sono stati registrati durante tour oltreoceano, perché negli Stati Uniti la band non era ancora esplosa. Nella stessa intervista con Combat Jack, il “rhyme animal”, come si autodefiniva, ha ammesso che i Public Enemy si sono convinti ad alzare l’asticella dopo aver ascoltato Raw di Big Daddy Kane. All’epoca avevano già attirato l’attenzione con il debutto Yo! Bum Rush the Show del 1987, ma dopo aver ascoltato i testi di Kane sono tornati in studio per assicurarsi che il disco garantisse loro un posto nella nascente golden age del rap.
In Fear of a Black Planet tutti i pezzi finiscono al loro posto. I Public Enemy non sono più secondi a nessuno e raccontano che sono stati nel futuro e che il futuro è nero. L’album celebra l’identità nera in tutta la sua gloria mistica e multidimensionale e lo fa mescolando pathos, umorismo e rabbia. Non c’è dono più grande.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.