E pensare che c’è stato un momento in cui non lo volevano più, questo Lucio Dalla che non spaccava, come si direbbe oggi. Era bravo, certo, era musicalmente dotatissimo, naturalmente, era pure strano, diverso da chiunque altro nel modo di presentarsi, di stare sul palco e nel modo, specialmente, di cantare. Niente di tutto questo guastava, niente di tutto questo bastava. Non ha bucato la bolla delle nicchie un disco di sconfinata modernità e complessità — ancora oggi non ancora riconosciuto a sufficienza come tale — come Terra di Gaibola (1970), né sono qualche anno dopo riusciti nell’intento gli album (eccezionali nella più letterale delle accezioni) con i testi scritti del poeta Roberto Roversi, LP che occupano la sua discografia dal 1973 al 1975. Manca qualcosa, qualcosa non funziona e però, al settimo disco, il vero successo deve assolutamente arrivare.
E il successo arriva, principalmente figlio di due elementi nobili: il primo è la tenacia degli illuminati che abitano la discografia italiana negli anni 70, qui nello specifico di Ennio Melis, Mr. RCA, che considera Dalla un suo nome: il successo di Dalla è un suo successo e come un lottatore lucido, che vede lontano, in nessun modo permette che un artista simile venga escluso dal gioco. Il secondo elemento chiave della svolta è il libro d’esordio di Chico Buarque, con cui Dalla è in contatto, un po’ amico, e che gli rivela intimamente un fatto: un musicista può scrivere parole e può anche farlo molto bene. Da quel momento Dalla inizia a lavorare ai testi per i suoi brani e non smette di andarsene in giro con un’agendina che non abbandona mai.
In egual misura influenzato dalla letteratura fantastica — a partire dai personaggi di Philip K. Dick — e dai fatti relativi al 77 bolognese degli Autonomi cui segue il tragico decesso dello studente Francesco Lo Russo, costruisce i protagonisti delle sue canzoni, personaggi che vivono nella combustione di un presente fatto di nuovi simboli, linguaggi, mutazioni culturali e sociali. Il frutto del primo esperimento da autore è sorprendente, sconcertante: in un’alta percentuale dei casi, il musicista che fa fuori il paroliere genera disastri, si taglia le gambe da sé, qui invece dà i natali a un capolavoro, si intitola Come é profondo il mare e va a costruire il primo capitolo di un’ideale trilogia composta da album che hanno in comune per prima cosa il fatto di essere praticamente perfetti, chirurgicamente istintivi, misurati senza essere mai fragili, densi senza in alcun modo appesantirsi: sono dischi ricchi, dischi all’avanguardia anche e specialmente nella loro potente immediatezza popolare.
In questo 2019 compie quarant’anni il capitolo centrale, diciamo pure il nucleo perfetto di questa inattaccabile trilogia, e Sony presenta e porta sul mercato una Legacy Edition dell’album arricchita da un libretto di 24 pagine con le illustrazioni di Alessandro Baronciani, un disegno per ogni canzone e tanti piccoli dettagli commoventi disegnati anche loro: una piccola cassettina dell’epoca — di quelle con banda RCA e un 45 giri de L’Ultima luna / Stella di mare. A definire la centralità assoluta di questo disco all’interno del percorso di Dalla pensa già il suo titolo: si chiama Lucio Dalla, ed ecco tutto. Siamo di fronte, infatti, a un autoritratto profondo, a quello che con ogni probabilità è il più riuscito riassunto di chi sta cantando, di chi sta suonando, di chi sta scrivendo, insomma, dell’interezza artistica, emotiva, umana dal cantautore bolognese.
Nell’edizione Legacy, che Sony ha evidentemente curato con tutta l’attenzione che un simile prodotto meritava, sono presenti gli interventi di tre cantautori italiani contemporanei come Colapesce, Dente e Di Martino e quelli di Maurizio Biancani, addetto al remaster dell’album a partire dai nastri analogici originali e del produttore del disco e, invero, dell’intera trilogia delle meraviglie: Alessandro Colombini, un vero maestro, per non dire un intellettuale della produzione musicale del cantautorato italiano. In ultimo la vera chicca di questa edizione è la musica che porta a galla: una versione in studio di Ma come fanno i marinai — poi hit di Banana Repubblic, vero e proprio spin off live di questa trilogia —, la versione inedita in studio, da oggi disponibile su ogni piattaforma digitale, di Angeli, cui si accompagna un videoclip animato, disegnato anch’esso da Baronciani e infine il demo di Stella di mare, qui incisa in quell’inglese maccheronico solitamente utilizzato in attesa di un vero testo ma, nel caso di Dalla, impiegato come vero e proprio suggeritore della musicalità della parola, musicalità che indicherà dunque i vocaboli da usare in italiano. Il cantautore, in fondo, lo diceva: “Scrivevo la parte testuale come se scrivessi la musica, ragionavo in termini visivo-letterari e scrivevo in libertà sulla mia agenda tutto quello che provavo, ma capivo subito che quello che scrivevo erano testi di canzoni, li buttavo giù già pensando a un utilizzo musicale”.
In effetti questa musicalità nei testi si rivela nel modo più assoluto in questi primi lavori, dove la parola si scioglie, letteralmente, nella musica. Lo rivelano i dettagli, i passaggi imprevisti, quell'”Anna bello sguardo non perde un ballo” di Anna e Marco con questo testo scritto in una notte, di getto, e che in originale era una cosa ben più piccola intitolata Sera, dove l’intero verso arriva scandito all’ascoltatore come una sola parola pronunciata di corsa, compressa, eppure in qualche modo magicamente rivelatrice dell’intera emotività del pezzo: una canzone che sarà un brano cardinale della storia del suo autore, uno dei nodi centrali di un disco dov’è difficile, se non impossibile, pensare a canzoni di punta e b-side. I brani di punta, in questa storia, però, ci sono, uno su tutti L’anno che verrà, e sono proprio questi pezzi quelli che hanno contribuito a fare di Lucio Dalla un’opera generazionale.
Come Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti, ben più di Rimmel di De Gregori, e come solo La voce del padrone di Battiato un paio di anni dopo, Lucio Dalla è il disco italiano che ha abitato le case di ventenni e trentenni del suo tempo, quel decennio, gli anni ’70, di cui interpreta il poderoso gran finale, dopo la lotte e i coltelli spuntati sul più bello entrati trasversalmente o direttamente, si diceva, in Come é profondo il mare, ma pure oltre il riflusso che qui appare già superato. Lo mostra bene una canzone come Milano che, come il Lucio Dalla del 1979, è già tutta dipinta, raccontata negli anni ’80, un attimo prima di trasformarsi nel mostro a due teste della Milano da bere e un attimo dopo il grande buio generato della fine del sogno collettivo del Movimento. Lo dice benissimo Alessandro Colombini che dimostra, tra le altre cose, quanto anche la cultura della parola contribuisca a fare di tecnici e produttori non solo ottimi uomini di musica ma perfetti uomini di canzone: questo disco è l’esatta consacrazione del Dalla autore dopo il primo passaggio di Come é profondo il mare. Viene dunque da pensare che ci sia pure una stretta connessione tra questo passaggio finalmente avvenuto da crisalide a farfalla e lo stesso passaggio, qui raccontato così bene, dell’Italia che non più si prepara a lasciare gli anni 70, ma li lascia davvero, abbandonandosi al decennio che, appunto, verrà.
Dal punto di vista dei testi, quest’album, che concept non è ma, come ancora sottolinea Colombini, resta comunque una sorta di grande specchio etico del suo autore, mostra in modo definito la grande capacità, il dono aureo di Dalla di mostrare non tanto la varietà tematica (questo è assodato), quanto lo spostamento di prospettiva rispetto ai suoi contemporanei, l’obliquità infinita che l’autore metterà in campo per tutta la sua vita artistica. Il miracolo di questo disco nasce però, com’è d’altronde giusto che sia parlando di canzoni, dall’incontro di quell’obliquità prospettica lirica di questi testi con queste musiche, musiche che, sottolinea Biancani a seguito del lavoro di masterizzazione, nacquero già nel futuro proprio nel loro essere disallineate, nel non rincorrere il lavoro di altri, nell’essere originali e cresciute con la loro naturale stortura — anche in questo, come uno specchio di Lucio.
Solo il disallineamento, dunque, concede un posto nell’eternità, specie con quella voce, registrata col Dolby poi tolto a posteriori, quella voce che doveva arrivare all’ascoltatore vicina come un sussurro amoroso all’orecchio, la voce che al trecentesimo ascolto di quel “vedi caro amico, cosa ti scrivo e ti dico, e come sono contento di essere qui in questo momento?” sa ancora provocarci un incidente, farci fare disastri d’amore, piangere davanti al banco dei surgelati. Quella voce che, a furia di essersi fatta sussurro, trasformò Lucio in un uomo che anziché parlare, sussurrava.