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Quando Pupo vide il futuro

Lo sapevate che a metà anni ’80 il cantante di ‘Su di noi’ fece un disco elettronico «più underground dell'underground»? Il racconto di ‘Change Generation’ in un estratto dal libro ‘Italian futuribili’

Quando Pupo vide il futuro

Pupo (Enzo Ghinazzi) nel 1984

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

Enzo Ghinazzi in arte Pupo ha avuto sempre le idee chiare. Soprattutto – implicazioni religiose e conversione a parte – nello spingersi, come dice un suo misconosciuto brano, «oltre la vita», nello scommettere sul futuro: non solo sul tavolo da gioco, passione che lo rovinerà letteralmente, ma anche in musica. Perché il percorso di Pupo non è affatto scontato, anzi, ha un inizio sorprendentemente «underground» e uno sviluppo tutto sommato incredibile visto che quelle prime influenze si trasformano in pop purissimo. Perché Pupo nasce come rappresentante di dischi e sotto le sue mani passano le uscite Cramps, e quindi gli Area, Finardi e molta musica alternativa italiana – era grande amico del boss dell’etichetta, Gianni Sassi – insieme alle novità di rottura provenienti dall’oltremanica come i Sex Pistols, di cui Pupo condivide, ebbene sì, l’anima ribelle. Ovviamente oltre ad assorbire quel tipo di sperimentazioni (e divorare il teatro-canzone di Gaber, che indica come una delle principali ispirazioni per il modo in cui mette l’ascoltatore al centro della scena narrativa del pezzo), Pupo è anche affascinato dal cantautorato e da quello che è il modello per antonomasia di libero ricercatore musicale, ovvero Lucio Battisti.

Fatto sta che la scelta di buttarsi nel pop non è campata in aria: rappresenta un modo per fare soldi, è vero, ma fare soldi con il pop non è scontato: l’orecchio disattento che percepisce nei suoi pezzi solo una facile prosopopea super leggera (e quindi senza alcun valore, se non commerciale), non tiene conto della sfida suicida che implica scrivere in quel modo. Pupo è infatti avvezzo, come fosse una perversione, a scrivere brani che sono la copia carbone uno dell’altro e indugiano su giri armonici quasi da principiante. Dietro questa mossa c’è un atteggiamento dichiaratamente punk: usiamo sempre gli stessi quattro accordi per qualcosa che possono suonare tutti, che può rimanere in testa in ogni situazione, qualcosa che anche un netturbino che non ha mai visto una chitarra per sbaglio può cantare sotto la doccia.

Ecco quindi che Pupo è veramente più vicino che mai ai Sex Pistols, nel piglio dei brani e anche nello stile di vita pericoloso, fatto di bulimia sessuale, sfrenato gioco d’azzardo, soldi buttati al cesso con un nichilismo invidiabile. Un look e una personalità sovente simile – soprattutto negli ultimi anni – a quella di un Lol Tolhurst dei Cure, qualcuno che non pratica più i vizi ma ne è ancora estremamente affascinato. La forma e la sostanza per Pupo si equivalgono ed entrambe devono arrivare all’ascoltatore come un neologismo musicale. Avido ascoltatore di hard rock, dei Deep Purple in particolare, sintetizza a modo suo la cosa per riproporla nel contesto della musica di facile ascolto. Operazione sulla carta impossibile, e impossibile in effetti è. Certo, a volte si sfiora il colpaccio e viene fuori, per esempio, una Su di noi – un picco quasi alla Alphaville di Sound Like a Melody (d’altronde registrata in Germania). Oppure la perfetta Sarà perché ti amo, portata al successo dai Ricchi e Poveri, in cui un classico giro di Mi viene utilizzato sfacciatamente e senza imbarazzo su un tema subliminale che – come mi ha confessato l’autore in un’intervista – parla di un amore saffico. Oppure ancora Cieli azzurri, che sfoggia passaggi armonici tipicamente punk nascosti sotto il belletto del pop sanremese. I Pistols dicevamo, ma non tanto quelli di Rotten quanto quelli di Biggs in Brasile, in questo caso il Brasile della nazionale campione del mondo («dopo il fischio brasiliano / era azzurro ogni mio pensiero»): il successo vissuto come qualcosa da bruciare in fretta, tanto da doverti far prestare i soldi da Morandi perché hai dei «buffi» atomici.

Pupo si infila nei casini peggio di un G.G. Allin, anche lui racconta tranquillamente alla stampa di essersi cagato addosso sul palco. Sforna dischi nei quali l’urgenza è più importante della razionalità, un po’ come il noiser Masonna che pubblica cinquanta cose al secondo di cui venti sono inutili. Per questo, dopo un grande picco commerciale, quando la Cgd gli chiede di stare fermo per qualche anno con l’obiettivo di capitalizzare su di lui, Pupo risponde con la rescissione del contratto, scegliendo di restare indipendente e di osare nelle sonorità, abbandonare la muffa del pop italiano «che conta» e rivolgersi invece ai giovani, come ad esempio Baltimora, che lo produrrà portandolo in zone Italo disco prima di molti altri. Change Generation è il disco della svolta.

Che era effettivamente già iniziata con Malattia d’amore o col manifesto Il futuro è già in mezzo a noi, timidamente piazzato nella zona new romantic ma tenuto su dalle salde tastiere di Aldo Banfi. In Change Generation invece ci sono arrangiamenti incentrati sull’elettronica, campionatori Emulator e macchinari affini, ma soprattutto c’è dietro un concept che dipinge scenari di futuro e di giovani iperconnessi. È solo il 1985 e Pupo sembra essersi messo a scrivere sull’orlo del 2022. Per ogni generazione nuova, ce n’è una vecchia che non accenna a ossidarsi: Suona e va’ è un ricordo della giovinezza di Pupo, il racconto di una libertà fatta di jeans strappati e di musica, di notti insonni in cui non fermarsi mai. È quasi un intro in cui Ghinazzi esorta i «kids» ad andare al massimo senza farsi tentare dall’eroina, perché altrimenti il loro mondo «non tira più», con un’allusione non tanto sottile alle cose sessuali ma anche drogastiche (il passaggio dal fiutare cocaina a iniettarsi la roba era cosa quasi matematica all’epoca, ma probabile che Pupo preferisse la prima opzione). Un brano che alle tastiere bagnate di tremolo (una specie di sound alla Arca ante litteram) unisce un pop ibrido tra elettrico ed elettronico, ottimista e sfacciato, che se ne frega dei problemi moderni.

Ma all’arrivo della title track si capisce che siamo proiettati su un altro palcoscenico: pestone elettronico sintetico in cui si narra di «amori in videogame», di una generazione che comunica a monosillabi americani come l’immancabile ok. Sembra ispirarsi al Moroder di Scarface o cose del genere, e in effetti si parla di contrasti con la polizia, di una gioventù che vuole solo vivere la sua vita senza cazzi. In un certo senso è un inno all’edonismo, trap prima del tempo («capelli corti ma lunghi pensieri dentro di noi») ed è il primo pezzo in cui Pupo sembra davvero a suo agio nei suoni robotici. In Di nuovo tu i suoni sintetici e computerizzati si infilano nelle crepe di chitarre passate nel mixer, è il racconto di un amore che corre sul filo di una ballata stile Space Age Love Song degli AFOS, ma profuma anche di hyperpop alla AG Cook. Stessa cosa vale per La mia libertà: togliete Pupo e metteteci una voce contraffatta a mo’ di pop orientale e avremo un brano dell’era digitale perfetto: «La libertà senza una lei che senso ha?». Anche il testo sembra uscito da un generatore di brani per la generazione z, sempre coi giri armonici tirati ed elementari, innaffiati da algidi campionatori.

In una specie di frigorifero zeppo dei cadaveri del catalogo Mute Records, Vita d’artista infila le costole di Aznavour in un allucinato carillon che descrive le insidie del mestiere, fatto di piccoli grandi tranelli e tentativi di uscirne vivi: «Una vita così consumata nella scia di una vera ipocrisia e non c’è altra via». L’arrangiamento è un fantastico cadere a grappoli di suoni freddi di Synclavier e Fairlight, un giramento di testa: Pupo vuole smascherare il mito dell’artista per far emergere la fasullata di una vita vissuta componendo canzoni con le emozioni degli altri. Brano particolarmente amaro, cui segue sempre nella stessa scia Cantando, praticamente una denuncia ai talent show prima ancora che esistessero: tanto che il ritornello sembra riferito non agli anni Ottanta in cui è stato concepito, ma proprio all’attualità: «I tempi stanno cambiando / e anch’io cambierò / la gente si sta svegliando»; Pupo sottolinea il dislivello tra i geni incompresi nei bar e troppe star inutili alla radio, finzione che secondo lui «finirà molto presto», tanto che il nostro abbraccia l’idea di dare l’esempio smettendo di cantare.

Nel disco c’è posto anche per una cover, quella di Io mi fermo qui dei Dik Dik, in una versione sintetico/karaoke/reggaeton avanti anni luce (roba del genere oggi fa il grano in classifica, diciamolo). E poi la già citata Oltre la vita, che sfodera dei mallet e suoni tipo theremin particolarmente suggestivi: immaginate Pupo che interpreta a modo suo i Japan e andrete vicini al succo del brano (c’è anche un ruggente bassone stile Mick Karn, d’altronde): strano a dirsi, una canzone spirituale sull’aldilà in cui Pupo immagina il dopo morte come proiezione nell’eternità di un avatar, «un tunnel che ci porterà oltre la vita / dove non c’è un tempo né un corpo». Susy ok è un perfetto spaccato giovanile in cui la mano di Maurizio Bassi/Baltimora dipinge una ragazza del futuro, leggera come una piuma perché fatta di algoritmi, una sorta di Paris Hilton di periferia sempre in forma e sempre ok, superficiale ma in senso buono: «Certo che ti chiamerò / senza impegno, sì lo so».

Questo disco tributo alle nuove generazioni inciso da Pupo non avrà però il risultato sperato, anzi come da lui stesso ammesso «non se lo inculerà nessuno». È lui a spiegarci il perché: «Io ero uno sperimentatore, ero troppo avanti, non ero in sintonia coi tempi. E credo che questo mi abbia molto danneggiato a livello discografico, di vendite… L’inizio di una crisi professionale pazzesca». Se è vero che da tutte le crisi nasce innovazione, allora Pupo è l’esempio che se ne può uscire come lui, effettivamente, ne è uscito: vincente. E, soprattutto, più underground dell’underground, per il coraggio di aver sfidato il mercato semplicemente negandolo dall’interno.



Tratto dal libro “Italian futuribili. Il pop nostrano che ci ha visto lungo” di Demented Burrocacao, Minimum Fax, tutti i diritti riservati

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