Da quando David Gilmour s’è liberato dell’obbligo di fare tour giganteschi e dischi kolossal, da quando cioè ha deciso di non essere più un membro attivo dei Pink Floyd, ha cambiato radicalmente profilo. Si capiva già una quindicina d’anni fa quando pubblicò On an Island. Raccontava in quell’album com’è vivere con la moglie e scrittrice Polly Samson in una tenuta di campagna di 120 ettari. Gilmour aveva 60 anni. Mettendosi alle spalle il mito del rock, accettava l’idea di far musica adatta alla sua età: morbida, pacata, riflessiva. Con qualche piccolo deragliamento, una mossa armonica inattesa o un particolare del testo che improvvisamente faceva cambiare l’umore del pezzo, come un fugace pensiero di morte.
Quindici anni dopo, le cose non sembrano cambiate granché. Lo si capisce ascoltando la prima canzone inedita che pubblica dal 2015. S’intitola Yes, I Have Ghosts, è uscita ufficialmente oggi, ma prima d’arrivare sulle piattaforme di streaming la si è sentita per una settimana nell’audiolibro della moglie A Theatre For Dreamers (non disponibile in Italia). Potere dell’amore: è la prima volta in cui la canzone di un grande del rock viene usata per trainare un audiobook. Altri frammenti musicali di Gilmour servono a raccordare i capitoli letti da Samson e chissà che questa forma di colonna sonora inusuale non prenda piede e altri grandi artisti decidano di fare qualcosa del genere.
Accompagnato da un video girato a Idra poco prima del lockdown e che David Gilmour ha mostrato in anteprima su Facebook, Yes, I Have Ghosts è un valzer, uno di quelli che avrebbe potuto scrivere Leonard Cohen. Il riferimento non è casuale. Cohen è uno dei personaggi che stanno sullo sfondo del libro di Samson che è ambientato nel 1960 nella comunità bohémienne che abitava l’isola greca di Idra. Ne facevano parte, fra gli altri, l’allora scrittore e poeta Cohen e la sua Marianne. Non solo. Il canadese è stato uno dei fili conduttori delle dirette che la famiglia Gilmour ha fatto durante il lockdown, una specie di versione digitale e succedanea di un tour promozionale del libro, ambientata in una finta taverna greca: bicchieri di vino rosso che neanche in Italia, tovagliette a quadretti, candele infilate nei colli di bottiglie, Gilmour che suona la chitarra acustica, le chiacchierate, le risatine, i vestitini a stampe floreali della signora Samson.
Gli ingredienti della canzone scritta da Gilmour con Samson sono quelli cari al chitarrista: un senso di raccoglimento e riflessione, l’abbraccio della famiglia, il folk che da anni è parte integrante della sua musica, un po’ per via delle radici inglesi, un po’ per l’amore per Crosby Stills Nash & Young. La canzone avrebbe dovuto avere un altro arrangiamento, ma le restrizioni dovute al lockdown hanno convinto Gilmour a optare per una versione casalinga suonata alla chitarra acustica con il violino di John McCusker e con l’arpa e la voce della figlia Romany (la sentiremo anche nella colonna sonora del film postumo con Carrie Fisher Wonderwell). Di Cohen, il pezzo non ha solo i cori di Romany che evocano quel che faceva il canadese con le varie Anjani Thomas e Sharon Robinson, ma anche il gusto per i dettagli nel testo. È una specie di piano sequenza in cui Gilmour dipinge scene di vita quotidiana – una stazione, un passaggio a livello, il fischio del treno – ed evoca una malinconia lieve, quasi incantata.
«Yes, I have ghosts» è una frase tratta dal libro della Samson. È pronunciata dal personaggio di Charmian Clift, scrittrice realmente esistita. Nel libro, lei e il marito George Johnston sono il re e la regina della comunità d’artisti di Idra. I fantasmi di cui parla la canzone non sono persone morte, ma vive. Solo quelle che non vediamo più. Nel caso della Clift è la figlia Susie che ha avuto quando aveva appena 19 anni e che ha dato in adozione. «È strano quando ti manca una persona che è ancora qui», dice Clift nel libro. «Qui, ma non qui». Col suo passo lieve e malinconico e l’arrangiamento acustico vecchio stile, Yes, I Have Ghosts è un pezzo sull’assenza. Lo era anche Wish You Are Here dei Pink Floyd, ricordate? Syd era qui, ma non qui. Quel pezzo evocava un’assenza che era assieme enorme e irreparabile, ed era disperatamente perfetto. Questo trasmette un calore e un senso di conforto che non t’aspetti da un pezzo in cui si canta la vita svanire e fantasmi che ballano bianchi come lenzuola.
Da quando s’è liberato dell’obbligo di sembrare una rockstar, si diceva, David Gilmour fa canzoni così, sospese tra malinconia e contemplazione. Non è la musica rock che ci aveva promesso una cinquantina d’anni fa quando i Pink Floyd erano disruptors del pop inglese. Nulla è rimasto dell’ambizione sfrenata e delle visioni del gruppo. È la musica che può fare un uomo di 74 anni che ha già detto e scritto e suonato tutto, seduto a un tavolo apparecchiato con una tovaglia a quadretti con la moglie e la figlia a fianco, una candela accesa, un bicchiere di vino e un microfono.