Bill Withers è stato il mio primo vero idolo. Il suo album d’esordio, Just As I Am, è uscito nel maggio 1971, quattro mesi prima che io nascessi. Quando ho sentito per la prima volta le sue canzoni, alla radio o dai dischi di mio padre, ho capito che stavo sentendo qualcosa di diverso. La sua musica e la sua voce erano terra-terra. Troppo spesso gli artisti neri vengono classificati o come talenti sovrumani (Michael Jackson, Prince) oppure come grezzi, di strada, che a stento superano i loro istinti animali (troppi per menzionarne qualcuno). Withers invece era qualcosa di diverso: un artista nero ordinario, un grandissimo cantautore che capiva, e che era abile a comunicare, la vita che la maggior parte di noi vive. Ha scritto canzoni sull’amore, la solitudine, la rabbia, la tristezza, la felicità – sempre in modo diretto, emotivo, senza paura.
Questa profonda autenticità a me sembrava qualcosa di molto vero, perché lo era. Withers era cresciuto povero in una cittadina mineraria nel West Virginia, era balbuziente, aveva perso suo padre a 13 anni, a 17 era entrato in marina e poi aveva lavorato come meccanico mentre cercava di far carriera nella musica. Alla fine aveva mandato un provino a Clarence Avant di Sussex Records, a Los Angeles, ma anche dopo che aveva firmato il suo primo contratto aveva continuato a lavorare. Sulla copertina del suo primo album c’è una foto di lui con la cassetta del pranzo. Ha poi registrato altri tre dischi per Sussex (Still Bill l’anno dopo, Live at Carnegie Hall nel 1973 e +’Justments nel 1974), e poi altri cinque dopo essere passato a Columbia Records.
Quando la gente parla dell’era dei cantautori, di solito si riferisce ai bianchi. Ma Withers faceva esattamente quello: il cantautore. Per cui sì, ricordiamo le sue hit – Ain’t No Sunshine, Lean On Me, Use Me, e l’enorme successo del suo ultimo periodo Just the Two of Us, un duetto con Grover Washington Jr. del 1980. Ma non dimentichiamoci de resto della sua produzione: Grandma’s Hands, Who Is He (and What Is He to You)?, I Wish You Well, The Same Love That Made Me Laugh. E non fermiamoci alle canzoni. La versione live di Grandma’s Hands ha un’introduzione parlata di due minuti e mezzo che parla di sua nonna e della musica da chiesa; io l’avevo imparata a memoria parola per parola.
La vulgata su Bill è che i suoi primi quattro album sono i suoi migliori e che il passaggio alla Columbia gli abbia rovinato la carriera. È vero che gli album usciti per Sussex sono quelli con cui Withers si è costruito la sua fama. +’Justments, del 1974, è particolarmente interessante, un disco rivoluzionario che racconta la fine del suo breve matrimonio con l’attrice Denise Nicholas, che precede di quattro anni il simile Here, My Dear di Marvin Gaye.
Molti ritengono che alla Columbia la sua identità sonora di artista terra-terra sia stata compromessa. Bill non aveva mai usato prima i cori di sottofondo e aveva smesso di usare la sua chitarra acustica per una banda (con, vale la pena menzionarlo, alcuni dei migliori musicisti dell’epoca come Ray Parker Jr., Harvey Mason, Wah Wah Watson. Il risultato è che ci aveva messo un po’ ad aggiustarsi a quel nuovo tappeto sonoro.
Ma io adoro anche i suoi dischi per la Columbia. Adoro Naked & Warm, del 1976, che la Columbia odiava. Il pezzo d’apertura, Close to Me, finisce ancora regolarmente in tutte le mie playlist. Amo Menagerie, del 1977, che contiene Lovely Day, un brano in cui Withers prende il volo e tiene una nota per più di 18 secondi. Anche nel compiere qualcosa di sovrumano però continua a sembrare uno qualunque. L’unico disco da cui non sono mai stato convinto al 100 percento è Watching You Watching Me, del 1985, ma anche quello ha qualcosa di buono. Il su suono anni ’80 e i suoi sintetizzatori mi ricordano mio padre, che era anche lui un grande fan di Bill Withers. È stato quello l’ultimo disco che io e mi padre ci siamo ascoltati insieme prima che l’hip-hop mi allontanasse dalla musica che mi aveva fatto scoprire lui. (Ironico, perché l’hip-hop ha continuato a estrarre il DNA di canzoni come Use Me e Kissing My Love per iniettare nuova vita nella sua cultura). Da parte sua, nemmeno Withers sembrava particolarmente innamorato di quel disco, comunque. Subito dopo averlo fatto si è allontanato dalla musica – per sempre. Praticamente tutti gli altri artisti hanno continuato a lavorare o hanno smesso per un periodo e poi sono tornati. Non Bill.
Quando J Dilla è morto nel 2006 non mi interessava più produrre, tranne che per i The Roots, così ho cominciato a fare una lista dei progetti a cui mi sarebbe piaciuto lavorare. Bill era in cima alla lista. Mi era arrivata voce che Withers fosse riluttante. Così ho deciso di cominciare con Al Green, che aveva vinto dei Grammy per musica gospel e pop, ma mai con il soul. Se avessi fatto vincere ad Al un Grammy con il soul, Bill avrebbe cambiato idea, giusto? Quando Al aveva poi vinto due Grammy per il disco a cui avevamo lavorato insieme, Lay It Down, sono tornato a fare la mia proposta a Bill. “No,” mi ha risposto, “non mi va”.
Poi sono andato da Booker T. Jones, che era stato il produttore del disco di debutto di Bill nel 1971. Se avessi fatto vincere un Grammy anche a lui, pensavo, Bill non mi avrebbe più potuto dire di no, giusto? Il disco che avevo fatto con Booker, The Rood from Memphis, aveva vinto un Grammy. Ma Bill mi aveva risposto ancora “no, non mi va”. Il mio ultimo tentativo era stato fare una cover di I Can’t Write Left-Handed, una canzone di protesta dei tempi del Vietnam scritta da Bill. I Roots l’hanno registrata con John Legend per Wake Up! nel 2010, sostituendo all’intro parlata di Bill una nuova introduzione scritta da John che ricordava agli ascoltati che dato che la guerra era sempre preseante, anche la canzone sarebbe rimasta sempre attuale.
Quel tentativo aveva fatto sì che Bill si avvicinasse a noi, alla fine. La leggenda del basket Bill Russell, che era uno degli amici più stretti di Withers, era da Starbucks e aveva sentito la nostra canzone. “Chi sono questi?” aveva chiesto. Gliel’avevano detto, e lui aveva poi chiamato Bill Withers per dirgli “devi sentire questa versione, è pazzesca”. La figlia di Bill gli aveva fatto arrivare una copia del disco e lui ci aveva scritto una delle più belle email che io abbia mai sentito, dicendo quanto apprezzava che avessimo rifatto il suo brano. John gli aveva risposto dicendo che avremmo suonato a Los Angeles e invitandolo a vederci live. Lui era venuto. Era anche venuto nel backstage. All’epoca aveva 71 anni ma ne dimostrava 50, 60 al massimo. Nessuno mi avrebbe potuto convincere che non sarebbe vissuto fino a 100 anni. Si era aperto con noi e ci aveva raccontato un po’ di storie.
Quando il momento mi era sembrato proprizio, gli avevo rifatto la mia proposta. Gli avevo raccontato da quanto tempo la sua musica era importante per me e che volevo essere il suo nuovo James Gadson (il leggendario batterista che aveva lavorato con lui all’inizio degli anni ’70). Withers mi aveva guardato. Avevo pensato di leggere un “sì” nei suoi occhi. Era rimasto zitto per 17 secondi e poi mi aveva detto ancora una volta: “no”. Stranamente, anche essere rifiutato da Bill Withers è stata un’esperienza che mi ha dato molto. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine, un eroe e un’ispirazione. Mi mancherà, ma so che quando succederà ci sarà la sua musica a farmi compagnia.