Re Nudo – Storia e storie di una rivista è l’antologia che raccoglie 50 anni di articoli, interviste e riflessioni pubblicati su Re Nudo, uno dei magazine più importanti della storia della controcultura italiana. Il libro, a cura dello storico fondatore e direttore Andrea Majid Valcarenghi, contiene materiale pubblicato tra il 1970 e il 2020, una selezione di interventi di musicisti, artisti, intellettuali, ricercatori, donne e uomini dei movimenti nascenti, e racconta la nascita del movimento femminista e di quello degli omosessuali, la psichedelia, i primi festival pop, l’alimentazione, la “nuova spiritualità”.
Tra i protagonisti ci sono William Burroughs, Allen Ginsberg, Mauro Rostagno, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Gianna Nannini, Franco Battiato, Claudio Rocchi, Vasco Rossi, Adriano Sofri, Martina Valcarenghi, Michele Serra, Gianfranco Manfredi, Jacopo Fo, Beppe Grillo, Ignacio Ramonet, Osho e anche Fabrizio De Andrè, di cui vi proponiamo, in anteprima qui su Rolling Stone, un’intervista pubblicata a marzo 1997, a pochi mesi dall’uscita di Anime Salve. Re Nudo – Antologia di Re Nudo 1970-2020, Storia e storie di una rivista uscirà il 26 novembre per Interno 4 Edizioni.
Senza Titolo: Gianni Perotti intervista Fabrizio De André
Dopo aver presentato la sua ultima raccolta di canzoni ‘Anime Salve’ e il libro ‘Un destino ridicolo’ scritto insieme ad Alessandro Gennari, De André racconta a Re Nudo ancora qualcosa in più
“Dedicato a chi non sta scappando
Dedicato a chi crede di sapere già tutto
Dedicato a chi pensa di vivere”
Trovo Fabrizio De André nel soggiorno della sua casa di Milano, che occupa saltuariamente quando non è in Sardegna a curare l’Azienda Agrituristica. Accanto a lui, nello spettacolo, ci sarà spazio per i figli Cristiano e Luvi. Dalle vetrate del soggiorno si intravedono, in lontananza, le Alpi. Ci sono dei divani rivestiti con tessuti di Laura Ashley, un grande tappeto persiano, due televisioni accese ma senza sonoro, quadri, vasi cinesi, libri rilegati di rosso, una foto con Giorgio Armani in una cornice d’argento. Dietro ad un ampio tavolino di marmo intarsiato, Fabrizio De André è seduto per terra. Dori Ghezzi mi porge un caffè d’orzo mentre Fabrizio accende l’ennesima sigaretta.
Facciamo un esempio pratico: tu che sei fuggito dalla città in tempi non sospetti, oltre 20 anni or sono, come vivi questo momento storico così pieno di contraddizioni, inquietudini, messaggi divergenti?
È tempo di nomadismo. Hanno ragione loro, gli zingari: un popolo che potrebbe veramente scrivere un capitolo importante della storia dell’uomo. Vivono su questo pianeta da migliaia di anni, senza nazione esercito, proprietà. Senza scatenare guerre. Custodiscono una tradizione che rappresenta la cultura più vera e più semplice dell’uomo, quella più vicina alle leggi della Natura. Ti può sembrare una visione parziale e romantica? Cerco solo di farne una lettura meno superficiale di quanto normalmente ci fa comodo. Andiamo verso un mondo di pochi ricchi disperatamente sempre più ricchi, mentre il resto dell’umanità, quei miliardi di uomini che continuiamo a chiamare curiosamente “le minoranze”, si muovono in modo molto diverso da quello che consideriamo normale. Tu vuoi un esempio. Ecco, questi vanno verso l’abolizione del denaro, adottano lo scambio, che è già un primo passo in direzione di una maggior spiritualizzazione. Chi si deve costruire una casa si fa aiutare dagli altri, nel concreto. Senza denaro. Ciascuno poi riceve in cambio altre cose, altri servizi, come nelle società primitive. L’uomo spogliatosi delle pulsioni economiche si spiritualizzerà di più, tornerà inizialmente verso un mondo inevitabilmente più arcaico, ma sicuramente verso una guarigione. Poi si ripartirà di nuovo. Anche per questo, credo, oggi nascono giornali come Re Nudo. Nascono nell’ambito di una società di mutuo soccorso, per riportarci a pensare che stiamo sbagliando direzione, che la vita non è poi così difficile da vivere, che basterebbe non complicarla, che è necessario riconnetterci con noi stessi. Non è fantasia, non è esoterismo, è saggezza. Anche questo diverso e antichissimo tipo di “economia del dono”, porterà secondo me a grandi trasformazioni sociali.
In Anime Salve ci sono i testi con immagini e parole addirittura dolorose per quanto secche e spietate. Cosa si muove nel tuo profondo?
Anche nell’altro disco, Nuvole, c’era un linguaggio crudo, ma la differenza fondamentale è che allora si ipotizzava, quasi si toccava l’esigenza di trasformazione, una trasformazione duramente contrastata da chi non la voleva. Quindi ne parlavo ancora con astio, mentre adesso la trasformazione è in atto. Quelle minoranze di cui parlavo già nelle Nuvole (Nuvole si divide in due parti, nella prima parla il potere e chi lo sostiene, nella seconda chi il potere lo subisce), in Anime Salve stanno diventando una maggioranza. C’è una spaccatura: da una parte ci sono le merci e il denaro, dall’altra c’è l’economia del dono e dello scambio. Adorno diceva che è giusto produrre per vivere, non vivere per produrre. Penso ad esempio ai paesi asiatici, dove interi popoli sono costretti a produrre enormi quantità di beni a basso costo per poter sopravvivere. Quando questa contraddizione diventerà anche per loro inaccettabile, il sistema capitalistico avrà enormi contraccolpi, probabilmente si sfascerà. Ci sarà una maggioranza che sostituirà il dono e lo scambio all’economia del profitto per potersi difendere dalla morte per inedia. In Anime Salve c’è l’etimo delle due parole: anemos e olos, spirito solitario, quindi unico, ma intero. Le “Anime Salve” sono in realtà i solitari, perché soltanto attraverso la solitudine penso si possa ottenere quel contatto con ciò che i Greci chiamavano l’Assoluto e che noi potremmo chiamare Grande Mistero.
Solitudine, Assoluto, Interezza: fa tutto parte di un ossequio al pensiero di Rudolph Steiner?
Da un certo punto di vista penso che sia conciliabile l’anarco-individualismo steineriano con quello che si può identificare con certe pratiche Zen o con il controllo della propria centratura e quindi, se vogliamo, anche con le tecniche di meditazione. L’uomo si conforta nella solitudine per il contatto che può trovare con tutte le voci interiori ed esterne, con tutte quelle voci che gli arrivano dal subconscio e da quell’Anima Universale di plotiniana memoria. L’uomo si conforta di buon grado con la società e con i suoi simili soltanto in occasione di un bisogno, un bisogno che può essere di tipo spirituale o materiale. Io credo sia meglio che l’uomo viva il più possibile da solo e che non faccia parte di nessuna organizzazione costituita, se non occasionalmente. Le organizzazioni sono la morte dell’uomo perché nascondono in sé i germi della violenza. L’uomo organizzato è pericoloso, è violento.
Tra speranza e disperazione dove sta la salvezza?
Emil Cioran, un uomo di grande lucidità diceva che la vita più che una corsa verso la morte, è una disperata fuga dalla nascita. Quando noi veniamo al mondo affrontiamo una sofferenza e un disagio che ci portiamo avanti tutta la vita, quello di un passaggio traumatico, da una situazione conosciuta all’ignoto. Questo è il primo grande disagio. Il secondo, non meno traumatico, è quando ci rendiamo conto che dovremo morire. Per me questa spaventosa consapevolezza è arrivata verso i quattro anni. L’uomo diventa “grande”, diventa spirituale o come vuoi, quando riesce a superare questi disagi senza ignorarli. Ora, se a questi due grandi disagi connaturati all’uomo, si aggiunge anche l’esercizio della solitudine, ecco che allora forse a differenza di altri che vivono protetti dal branco alla fine della tua vita riesci a “consegnare alla morte una goccia di splendore” come recita quel grande poeta colombiano che è Alvaro Mutis. Se ti opponi, se ti rifiuti di attraversare e superare questi disagi, per sopravvivere, ti organizzi affinché siano altri ad occuparsene, deleghi. E questa rinuncia ti toglie la dignità, ti toglie la vita. Credo che l’uomo per salvarsi (Anime Salve) debba sperimentare l’angoscia della solitudine e della emarginazione; questo lo aiuta. La solitudine, come scelta o come costrizione, è un aiuto, ti costringe a crescere. Questa è la salvezza.
Né moralità, né immoralità: qual è il tuo spazio?
Io sono assolutamente contrario alla morale, a quell’insieme di leggi che una autorità precostituita impone per far sì che la società possa avere delle connessioni, affinché la gente debba stare insieme. Sono favorevole alle leggi consuetudinarie non necessariamente scritte. Mi confronterei più volentieri in quella che definirei la “ragion sentimentale”, non con quella morale, che Kant definisce “ragion pratica”; darei spazio alla creatività e ai sentimenti degli uomini, altrimenti arriveremmo a dover ipotizzare la spiritualità di un certo tipo di crimine. Si può arrivare a chiedersi, come hanno fatto nel 1905 in Russia: “È necessario uccidere? È necessario uccidere i nostri simili che vessano gli altri attraverso regole che li portano a morire di fame? Il delitto può essere un’arma di lotta?”. A questa domanda rispondevano: “Sì, è necessario, è lecito”. Di pari passo si ponevano un altro interrogativo: “Esiste una giustificazione all’omicidio?”, “No – si rispondevano – non è giustificabile, perché non come si potrà mai uscire da una prevedibile catena di odi e omicidi tra oppressi e oppressori? Faida che porterebbe al paradosso di uccidere l’ultimo assassino?”. Come si fa a conciliare questo sì e questo opposto no? I nichilisti russi superarono questo problema in una maniera secondo me spiritualmente molto elevata: sacrificando se stessi. Dal momento che è giusto eliminare il tiranno, dal momento che non è comunque giustificabile uccidere, chi uccide deve subirne le conseguenze, suicidandosi o lasciandosi uccidere. Secondo me all’interno di certi sistemi totalitari è un insegnamento che sarebbe opportuno far filtrare soprattutto nelle scuole, anche nelle nostre scuole, succederebbero meno omicidi e sicuramente più mirati. Quindi non si tratta tanto di morale ma di far sì che attraverso il sentimento, sia il sentimento a decidere, anche un sentimento collettivo, comune.
Com’è giusto comportarsi quindi?
Prima di Socrate e di Gesù Cristo, erano riconosciuti quattro impulsi primari: quello della nutrizione, quello della continuazione della specie, quello al saccheggio di cui abbiamo avuto ampie e nobili prove durante le recenti amministrazioni politiche e, strano a dirsi, l’impulso alla compassione. Io credo sia proprio la morale, costringendo a seguire un insieme di regole di cui non si è convinti, ad avere sopito questo meraviglioso impulso che è connaturato all’animo umano, l’impulso alla compassione. Trovo invece moralistico e ricattatorio il termine solidarietà perché in nome di una regola o di una imposizione moralistica, si soffoca proprio questo impulso alla compassione, termine che ci spiega come l’uomo sia già solidale, per impulso naturale.
Pensi che il mondo sia una realtà comprensibile o incomprensibile? Quali le tue certezze? Quali i tuoi dubbi?
Il mondo è e basta. Credo di potermi definire un animista. La mia religione è simile a quella dei nativi americani. Vedo un anima in tutto quello che tocco e che guardo. Da un po’ di tempo a questa parte poi, riesco a non sentirmi più né competitivo né in conflitto con il naturale. Ogni volta che l’uomo ha voluto rendere comprensibile ciò che non lo è, come per esempio l’animo umano, allora sono sorte le scuole, le religioni, le filosofie. Tutti tentativi di chiarificazioni che partono da assiomi, cioè da certezze o regole precostituite ma non spiegate, da cui poi nascono quelle ossessioni comportamentali che noi siamo soliti chiamare fondamentalismi. Conosciamo solo qualcosa di molto personale, impreciso, mutevole. Solo il contatto con il sé più profondo, il contatto con la nostra indicibile profondità, porta alla comprensione e alla trasformazione di quei disagi di cui abbiamo parlato prima. Una trasformazione che ha qualcosa anche di artistico perché porta in qualche modo a trasformare le contrarietà in qualche cosa di bello e quindi di utile. Qualcosa che trasmette il desiderio di contemplazione.
Qual è il tuo rapporto con le nuove generazioni, con i tuoi figli?
In rapporto all’età dei miei due figli (che hanno oggi 34 e 19 anni) io allora ero poco più di un quadrumane. Oggi i ragazzi capiscono tutto molto in fretta, è vero, però… mettendo in funzione la ragione, razionalizzando tutto, spesso perdono di vista la percezione sentimentale della vita, finiscono per perdere il cuore. Si fanno inscatolare in questa specie di pulsione economica che porta ad una equazione pericolosamente ed unilateralmente edonistica per cui “chi ha i soldi non soffre”. Oppure “la vita è solo di chi ha i soldi”. E questa è una terribile non verità.
Qual è il tuo rapporto con i soldi?
Inizialmente ho pensato ai soldi come ad un valido riparo dai guai della vita, un riparo dai mille pericoli del vivere. Che poi sono pericoli ridicoli: quello di non avere, di non possedere abbastanza cose, quello di non poter avere i cioccolatini, di perdere la bambinaia, di non potersi permettere le vacanze al mare. Ma poi mi sono chiesto: non sarà che il pericolo è proprio quello di andare a fare le vacanze al mare, di abituarsi ad alimentare dei bisogni dei quali non si può più fare a meno? Di andare dal parrucchiere, di farsi il lifting o le cure di bellezza? Non si può passare il tempo a farsi dipingere o a cambiare la faccia! Insomma ho cambiato il mio atteggiamento; ora non dico di arrivare alla scuola cinica di Diogene, però forse è una buona strada da percorrere. Quando la vicissitudine dei bisogni diventa una necessità assoluta, questo sì che è veramente pericoloso. Per questo io vedo bene le “Anime Salve”, questa umanità che sembra galleggiare ai margini del benessere, che sta all’estrema periferia di questi bisogni. Io penso che il bene sia proprio quello di galleggiare intorno, di muoversi ai margini, di affrontare le difficoltà giorno per giorno… solo così si riesce ad “essere”. Ci sto pensando… a quei pericoli che non sono il disagio, ma la causa del disagio. Un primo passaggio in me è avvenuto intorno al 1976 quando mi sono trovato in perfetto accordo con mia moglie nel costruire un azienda agricola, così, dal nulla. Abbiamo passato 16 anni senza l’energia elettrica, in un rudere riattato e con un generatore di corrente. Il generatore funzionava qualche ora al giorno, alla sera accendevo le candele; prima di dormire, per leggere avevo creato sul comodino una specie di cimitero di candele; quando con l’andare del tempo e la perdita di diottrie queste candele erano diventate veramente troppe ho buttato via i libri e ho imparato ad ascoltare la notte, a vedere senza bisogno della luce. Ho incominciato a muovermi attorno a casa con l’aiuto di pezzettini di carta bianchi che fissavo durante il giorno come punti di riferimento. Ora ci vedo bene di notte quanto di giorno e, cosa ancora più importante per un musicista, ho imparato ad ascoltare la musica della notte, i piccoli rumori. Senza l’elettricità ho imparato a conoscere più cose di quante ne avrei potute conoscere con la luce e lì ho incominciato a capire che tutti questi bisogni, queste necessità potrebbero essere solo la proiezione di bisogni indotti. Alla tua domanda sul mio rapporto con i soldi ti posso rispondere con la pagina finale del romanzo Un destino ridicolo:
“Sei cresciuto in un mondo nel quale i soldi sono considerati la divinità suprema che può trasformare d’incanto la vita in un paradiso, la chiave per soddisfare tutti i desideri, per superare ogni difficoltà. È quello che sei stato costretto a credere fin da bambino, come tutti noi che stiamo attraversando questo secolo bugiardo. Pensa a quanto denaro viene gettato ogni giorno nel gioco, nella lotteria, nel totocalcio. Sai perché? Perché alla gente non piace vivere. Sogna il colpo grosso come un’occasione per uscire dalla vita prima che finisca, con l’illusione di tagliare in un colpo tutti gli inconvenienti, le contrarietà e le fatiche. Ma è un inganno. Perché Dio ha voluto che nella vita ci fossero bianco e nero, chiaro e scuro, bene e male. Se non fuggiamo le avversità e accettiamo di affrontare anche quello che ci fa paura, prima o poi il miracolo si manifesta e allora scopriamo che la difficoltà può trasformarsi in un’occasione, che i problemi sembravano insormontabili perché venivano rimandati e si accumulavano nella pigrizia e nell’avidità”.
In breve tempo hai presentato un libro e una raccolta di canzoni, entrambi fatti in collaborazione (con Alessandro Gennari il primo e con Ivano Fossati l’altra). Da dove ti nasce l’esigenza di elaborare un messaggio così personale con qualcun altro?
Ho bisogno di confrontarmi non solo con la mia autocensura, ma anche con chi conosco bene, con qualcuno di cui mi fido. Di questo sento il bisogno. Anche perché in fondo non si fa mai nulla veramente da soli. Si può scegliere di collaborare con i vivi o con i morti; ecco io preferisco i vivi, anche se so che ognuno di noi si porta dietro tutto il suo vissuto e tutti i suoi morti.
Nei tuoi testi mi sembra che tu vada sempre più in uno spazio che sta oltre i sentimenti. Non è tutto facilmente comprensibile: per ascoltarti ci vuole una certa complicità che tu provochi mediante la voce, una voce che rende accessibili questi spazi. È quello che cerchi?
Quella che tu chiami complicità può essere la cosa indotta dalla mia voce. Una voce particolarmente evocativa e suggestiva, di questo ne sono consapevole. Ma non l’ho inventata io, la voce, me l’ha data mia madre, ce l’ho dalla natura. Ma non faccio niente di speciale per farmi ascoltare: se qualcuno desidera ascoltare io ho delle cosa da dire. Ogni tanto le dico. Tutto qui.