Che canzonette solari, che musicalità, che suoni tintinnanti di Rickenbacker, che rimandi felici alla stagione del folk elettrificato dei Byrds, all’estate infinita dei Beach Boys, ai cantautori di Laurel Canyon, a Venice Beach e Santa Monica, alla Los Angeles anni ’60. E che racconti cupi delle nostre esistenze vuote e atroci, le piccole miserie, lo schifo, la morte. El Galactico, il secondo album frutto della rifondazione dei Baustelle, fa spesso leva sul contrasto fra le scelte sonore e i testi in cui emerge una sempre più pressante ricerca di senso. È un gran bel disco, ed è la cosa che conta.
La canzone riflessiva sarà pure diventata un’arte piccolo borghese, specie se paragonata all’epica proletaria e fanfaronesca della trap, al grande sogno dell’arricchimento individuale, alla pretesa autenticità di chi fa delle canzoni un esercizio di contabilità di soldi e ragazze. Ma se c’è qualcuno che quell’arte la sa far bene, se c’è qualcuno in grado di mettere storie piccole e a volte tremende dentro canzonette cantabili a squarciagola, usando parole che nessuno intona più, quelli sono Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e i Baustelle. Scansano ironia e cinismo, che non portano da nessuna parte, e raccontano la difficoltà che proviamo tutti quanti di stare al mondo e di starci bene.
Lo fanno in canzoni scritte dopo il tour di Elvis che spesso sono nello stesso momento divertenti e toccanti, più efficaci proprio perché fuori dagli schemi e distintamente baustelliane, specialmente nelle melodie. Qua dentro ci sono pezzi di un mondo a pezzi: il nostro naufragare nel nulla, la crudeltà gratuita, la cattiva imitazione dell’amore, la vita che diventa content, la riduzione delle possibilità, la desertificazione fuori e dentro di noi. Ecco perché esistono dischi del genere: siamo tutti come la protagonista di Giulia come stai, desiderosi di canzoni che ci abbraccino e ci dicano che il mondo brucia, ma non tutto è perduto.
«Che vuoi che ti dica se non che da sempre nei Baustelle c’è questa tematica un po’ alla Montale in cui mi ritrovo», dice Bianconi, che del poeta ama citare La casa dei doganieri, la bussola che “va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi più non torna”. Siamo nel suo studio milanese circondati da scaffali pieni di saggi magnifici sulla musica, chitarre, un poster di Dylan, le modelle di Country Life dei Roxy Music, una carta da parati che sembra uscita da un film di Wes Anderson. «In questo disco» dice Bianconi «c’è il tentativo di cercare di dare un senso a questo nonsenso».
E quindi El Galactico è un disco di canzoni pop che si prestano, come del resto spesso succede coi Baustelle, a due livelli di lettura. Puoi cantarne i ritornelli e passare alle canzoni successive della fortissima playlist che ti suggerisce Spotify. Oppure renderti conto che è un album a suo modo spietato, che racconta il nostro disorientamento collettivo. Vien voglia di purificarsi, come suggerisce il narratore di Spogliami, oppure di mascherare la realtà con La nebbia, perché fa talmente orrore che è necessario occultarne la vista e la coscienza.
Ci sono anche tre, quattro pezzi che parlano di morte e del resto il disco è dedicato a Ilvo, il padre di Bianconi morto nel maggio 2024 investito da un’auto. Si apre con Pesaro, una storia vera, il cantante che riceve una notizia tragica e vaga sul lungomare perso nei suoi pensieri, tra amore e morte. È a un passo dalla fine anche Moana Pozzi che sul letto di morte mette via i pensieri e i ricordi di una vita, ma non c’è niente di mesto nel modo in cui la descrive Bianconi e la canta Bastreghi, anzi, La filosofia di Moana trasmette euforia. E poi c’è L’arte di lasciare andare, sui nostri tentativi vani e frenetici di non accettare la decadenza e la morte.
Se El Galactico è un bel disco, è anzitutto perché ha le canzoni. Come Una storia che (scommettiamo?) finirà per essere considerata una delle cose migliori dell’anno. Non sappiamo che cos’è successo alla protagonista, ma grazie all’interpretazione commossa e al tempo stesso misurata parteggiamo per lei, che è stata vittima di qualcosa, è stata filmata, è finita in rete, è nel flusso di tutte queste storie senza storia e vorrebbe solo sparire. Se El Galactico è un bel disco è anche per la piacevolezza degli arrangiamenti, le stratificazioni sonore e gli abbellimenti fatti con strumenti a fiato, tastiere d’ogni tipo, chitarre, archi. Per il “corpo” che i rifondati e ri-stimolati Baustelle danno alle canzoni.
Non c’è niente di particolarmente nuovo, né d’innovativo nel suono più classicamente rock che sono andati a cercare col co-produttore Federico Nardelli, ma è perfetto, questo sound, per dettare il tono al disco che è nato dalla visione di un’insegna di un locale dalle parti di via Padova a Milano, El Galactico appunto, che ha dato il via alla ricerca di suoni e ispirazioni nella California meridionale. «In testa avevo il primo dei Byrds, il primo dei Doors, i Beach Boys negli anni in cui si evolvevano, i Mamas and Papas, i Buffalo Springfield, un suono scintillante e glorioso, portatore di una sorta di struggimento solare che è stato bello mettere in un disco dei Baustelle, che sono maggiormente associati agli anni ’70».
Uno dei libri presenti nello studio di Bianconi è Il resto è rumore, notevole saggio di Alex Ross sulla musica del Novecento. E proprio uno dei suoi protagonisti, Luciano Berio, diceva che «c’è musica e musica», ci fece anzi il titolo d’un suo bel programma televisivo di divulgazione. È un po’ quello che dicono i Baustelle in questo disco che uscirà venerdì, le sue canzoni infine mischiate a decine di migliaia d’altre, con la speranza che non si perdano. Se c’è musica e musica, non è una questione di riferimenti giusti o sbagliati, conta quel che dici e come lo dici, conta il fatto che queste canzoni descrivono un mondo e pongono delle domande.
Due strumentali, Per sempre e Non è una fine, sono in coda rispettivamente a L’arte di lasciare andare e La nebbia. Il primo ha un che di morriconiano, il secondo si riaggancia a una delle passioni dei vecchi Baustelle, quella per la lounge spaziale degli Stereolab. C’è anche una specie di editoriale cantato sullo stato della canzone italiana, L’imitazione dell’amore. Si rimpiange la vertigine di certi testi che raccontavano la vita com’è, mentre oggi c’è un “proliferare osceno di emozioni e cuore”. «Oggi il mondo produce un’unica grande musica confortevole», dice Bianconi ed è il solo momento della nostra breve conversazione in cui si scompone un poco. «E io finché son vivo farò musica che ti mette a disagio». E che te lo fa cantare, quel disagio.