Cantare il male con onestà: ‘Relax’ è il disco più universale di Calcutta | Rolling Stone Italia
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Cantare il male con onestà: ‘Relax’ è il disco più universale di Calcutta

Il ragazzo padre dell’indie italiano non scrive più manuali di introspezione, ma affronta gli ascessi della vita con la bocca spalancata e il cuore in subbuglio. In altre parole, questo è l’album della maturità

Cantare il male con onestà: ‘Relax’ è il disco più universale di Calcutta

Calcutta

Foto: Gianluca Palma

Coro, il pezzo con cui si apre Relax, il quarto album in studio di Calcutta, contiene una promessa di superamento del calcuttismo per come l’abbiamo conosciuto fino ad ora che, pur non essendo sempre mantenuta negli altri dieci brani di cui è composto il disco, da sola basta a prefigurare una nuova fase nella carriera del Mastro Geppetto dell’indie italiano.

Coro è un pezzo di evidente ispirazione alpina, un canto di scalata in cui gli scalatori, invece che esortarsi a vicenda al raggiungimento della vetta prefissata – in questo caso, non l’Ortigara o il Monte Grappa, ma il senso dell’esistenza – cercando conforto in un riscontro similmente onesto e doloroso anche nel prossimo suo, rappresentato dalla coralità, inneggi a non averci capito una ceppa. Com’è struggente ascoltare le voci di Calcutta e dei suoi commilitoni canori accettare all’unisono il fatto che su quella cima non sarebbero riusciti comunque a posare la picozza, neanche se si fossero presentati al campo base in perfetta tenuta da trekking, invece che in bermuda e giacca jeans: “Quando finisce il buio noi cosa guarderemo? […] Ma dove correre, finché si può?”.

Omaggiare, anche se invertendone di fatto la mozione ascensionale, la tradizione corale montanara non è per il musicista latinense un nuovo ritrovato del manierismo indie. Qui il genere musicale prescelto come cornice musicale partecipa del senso del brano come una materia prima da plasmare. Coro – scritto con Laurent Brancowitz dei Phoenix, che dice di essersi ispirato al Coro della Società degli alpinisti tridentini – è forse il più innovativo e riuscito tra i pezzi di Relax non solo perché, pur mostrando l’abisso, ne è il meno claustrofobico, ma anche perché ci mostra cosa sarebbe potuto essere questo album se Calcutta e collaboratori (tra cui Giorgio Poi, Giovanni De Sanctis, Davide Petrella, Andrea Suriani e Myd) avessero mantenuto la barra dell’ispirazione dritta anche oltre l’ottava e nona traccia, che fungono un po’ da colonne d’Ercole creative, oltre le quali sembra che l’immaginazione abbia deciso, purtroppo, di fermarsi e concedersi beni rifugio lessicali come facili forestierismi – “Che ne so […] della tua loneliness” – e gli immancabili prodotti alimentari tipici regionali (“Allegria, perché tu te ne vai / Spezzandomi come pane carasau?”).

Per le prime sette tracce Relax è un disco in cui la musica non è uno sfondo del Mac tra cartelle intitolate Paracetamolo e Pesto, apparentemente rinominate puntando il mouse sulla lista dei lemmi ancora sconosciuti a Genius.com, ma reale tessuto connettivo tra sentimenti e idee, da una parte, e la loro espressione, dall’altra; tanto da supportare la teoria dei tanti ascoltatori, non solo su Instagram o X, che, ascoltandolo, hanno gridato alla maturità.

Come mai era accaduto nella discografia di Calcutta musica e testo sono l’una valore aggiunto dell’altro e forse proprio questa caratteristica, così spesso cruciale nel cantautorato classico italiano, è la chiave di volta di pezzi come Giro con te o, soprattutto, Controtempo – dove un contrasto ritmico con l’andamento della musica, annunciato dal titolo stesso della traccia, simboleggia meglio di qualunque metafora (anche una riuscitissima come quella d’apertura: un Autogrill straniante, in cui tutti gli avventori hanno l’accento toscano) – il riconoscimento delle differenze insuperabili tra gli elementi di una coppia (“Non ero mai finito a letto con una di destra” is the new “E ho fatto una svastica in centro a Bologna / Ma era solo per litigare”?).

L’impianto timbrico di Giro con te è talmente raffinato da far sembrare i picchi qualitativi della produzione calcuttiana del passato quasi un manuale di introspezione for dummies, da cui prendere progressivamente le distanze, se solo fosse possibile smettere di cantare “Cosa mi manchi a fare”, ogni volta che la riascoltiamo.

A un certo punto di Giro con te, per descrivere una situazione amorosa battistiana, Calcutta canta Battisti con delicata autoironia, imitandone la progressione canora solo per alcuni specifici versi: “Che l’anno passato è stato uno schifo / E ancora qui crolla un po’”, per poi tornare subito dopo Calcutta. Siamo agli antipodi della tenerissima ma esteticamente scellerata mitomania con cui Tommaso Paradiso, in un album come Fuoricampo, cantava Dalla, quasi autoconvincendosi di essere di Bologna; senza cattive intenzioni, per carità. Tommaso allora faceva in musica quello che fanno alcuni ragazzini quando indossano una t-shirt sulla pelle nuda con 10 gradi: un po’ per fare i fenomeni ma anche, in fondo, per un disperato desiderio di attaccare bottone con chi, puntualmente, finirà per dare ascolto al proprio senso paterno/materno e intimargli di coprirsi, buon Dio.

Calcutta, evidentemente, si sente come in una canzone di Battisti e lo esplicita cercando un contatto metamusicale con l’ascoltatore anche quando non può averne abbastanza con la sua interlocutrice sentimentale designata. L’intonazione calcuttiana sostiene perfettamente questo omaggio che sarebbe intraducibile se non in musica. Un intero piccolo omaggio a Battisti qui svolge il compito mimetico che sarà degli effetti sonori hi-tech in una traccia successiva come SSD.

Anche l’omaggio manieristico a un maestro del passato, dunque, in Relax diventa elemento fondamentalmente organico all’idea di fondo complessiva del disco, e cioè una raccolta che lo rappresenti al di là dei singoli, che sono solo canzoni, e al di là delle parole, che sono solo parole. Relax è un manifesto poetico che non avrebbe potuto essere espresso con un altro mezzo se non la musica, non immagini giustapposte in rapida successione per essere citate sulle Smemorande o qualunque cosa usi il pubblico calcuttiano (sempre più multigenerazionale) per annotarsi i versi preferiti facendo finta di volerli annotare, ma sperando in cuor loro che qualcuno gli sbirci il foglio o le stories.

Perfino il singolo – anche se non anticipato – del disco si concede un calcuttismo solo nell’intitolarsi 2minuti e nel durarne effettivamente 3 (e 34 secondi) e, per il resto, è un pezzo immaginifico molto convincente: “Come un lampo sopra la città / Ti ho vista in un angolo, da sola nel traffico / Ma magari non еri neanche te”.

Dopo l’ascolto dell’intero disco, al netto delle ultime tre o quattro tracce (le uniche che producano in noi la sensazione che non fosse necessario aspettare cinque anni perché fossero distillate), si chiarisce così dove risiedesse l’ironia del titolo del disco e della sua cover. Non c’era in effetti proprio un bel niente da rilassarsi. Calcutta non è, come avevamo immaginato vedendo quella foto per la prima volta, una sorta di anestetico contro il logorio della vita contemporanea, ma è il trapano stesso dell’odontoiatra che sta operando la fanciulla distesa sulla poltrona. La vita, per lui, è quello che succede tra un intervento e l’altro di un dentista esistenziale. Ma forse proprio pensare al peggio e cantarlo con sincerità, anche a squarciagola, è, in fondo, esso stesso rilassarsi? Smettere di fare finta che gli ascessi della vita – l’amore, la morte, il vuoto, il Covid – non dolgano e affrontarli è l’inizio della riduzione della tensione? Questo sembra dirci Calcutta mentre si sottopone per primo all’operazione con la bocca spalancata e il cuore in subbuglio.

Per queste sue caratteristiche, tra i tanti dischi nostalgici o solo retrogradi usciti in questi anni di record di apnea creativa per la musica leggera italiana, Relax suona come uno dei più intellettualmente onesti, dotato com’è di un nostalgismo e di una malinconia non cosmetici, ma pienamente funzionali alla sua espressività. Non c’è molto per cui essere allegri – sembra confidarci, soprattutto nell’ultima traccia, questo artista che ha come unica corazza un corpo ricoperto di peli e denim – ma cantiamolo tutti in coro.

Perché l’indie, se si snatura o diventa manierismo, può anche diventare mainstream, a furia di numeri e di featuring, imponendosi con tale forza sulla scena musicale da assurgere di diritto a parte integrante della scaletta di Sanremo. Ma se l’indie comincia a parlare a più generazioni e a più mondi, come accade in Relax, può ambire perfino a qualcosa di più: un vagito di universalità. E questo album di Calcutta, ragazzo padre dell’indie italiano, è il primo in cui l’indie sembra essere pronto a chiedere alla Fata Turchina – o a chi per lei – di diventare finalmente un bambino vero.

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