Il singolo di lancio Slime You Out ha debuttato al primo posto nella Billboard Hot 100 e ha già 68 milioni di stream su Spotify; il meno ascoltato dei brani del disco ha totalizzato in soli tre giorni dalla pubblicazione cinque milioni di ascolti solo sulla piattaforma svedese; tutti ne stanno parlando e tutti, in qualche modo, ne devono parlare. Niente di nuovo, da questo punto di vista, per Drake: il suo For All the Dogs sta avendo e avrà successo. Ma non è la sola consuetudine che questo progetto rispetta: le tracce del disco sono 23, per un totale di quasi un’ora e mezza di musica. Per l’uomo da quasi 150 singoli, 90 videoclip, otto album in studio (di cui tre negli ultimi due anni) e svariati mixtape in 18 anni di carriera l’iperproduttività non rappresenta certo una sorpresa.
Ma se in passato – esempio su tutti il capolavoro Take Care – era stato sintomo di una mente zampillante e dalle numerose risorse, in questo disco (come del resto in quelli immediamente precedenti) si ha l’impressione che l’eccesso produttivo sia davvero, come sospettano in molti, non tanto una scelta dettata dall’incontenibilità artistica del creatore della Ovo, quanto una conseguenza diretta del metodo di guadagno legato agli streaming e forse anche alla produzione: più pezzi uguale più stream, e anche più persone coinvolte nell’ascolto. In parole povere: more money.
Il risultato è che all’interno di questi 23 brani si intravede un buon disco, a tratti anche ottimo, composto dalle dieci/dodici tracce più rilevanti e meglio riuscite, diluito e in definitiva sciupato da almeno altrettanti brani senza né capo né coda. Il tutto tenuto insieme da un concept abbastanza debole e forzato, ovvero il patto narrativo con gli ascoltatori secondo cui il disco sarebbe radiotrasmesso dalla fittizia emittente BARK radio, e macchiato dalle polemiche innescate dai Pet Shop Boys che accusano Drake di aver cantato il ritornello della loro hit del 1986 West End Girls all’interno del brano All the Parties senza aver richiesto permessi né aver accreditato i compositori originali.
Ma veniamo al contesto in cui questo disco è stato pubblicato. Si parte dallo scorso 14 luglio, quando il rapper canadese pubblica Titles Ruin Everything, libro di circa 160 pagine riempite da piccole frasi, giochi linguistici sarcastici e in generale aforismi sul suo rapporto con il pubblico, sulla celebrità e sulle relazioni. All’interno del libro c’era un QR Code che riporta a un sito web tuttora attivo che consiste in un’unica pagina, statica, in cui viene annunciato il nuovo disco e in cui, a ben vedere, si può cogliere una dichiarazione di intenti programmatica: «Ho fatto un album che segue il libro. Dicono che gli manca il vecchio Drake, non tentarmi. For All The Dogs».
Ora, chi sia il vecchio Drake è presto detto: dopo Honestly, Nevermind, incursione/sterzata allora imprevista del canadese verso il mondo dell’house e del clubbing, la critica era stata tutt’altro che benevola, e in generale quella fase (o più che fase, quello specifico progetto) non è mai stata digerita fino in fondo nemmeno dai fan. In realtà quel disco, col senno di poi, ha dato uno scossone alla traiettoria di Drake che, dal punto di vista musicale, stava iniziando ad avvitarsi su sé stessa, procedendo per inerzia e creando la sensazione che non ci fosse più nulla di nuovo da aspettarsi. Con l’operazione Honestly, Nevermind il cantante ha sparigliato le carte mettendosi nella posizione di poter scegliere se approfondire la direzione di quel disco (magari raggiungendo risultati un po’ più interessanti) o giocare con le aspettative di quel pubblico che acclamava a gran voce il suo ritorno all’ordine. Alla fine, Her Loss, il disco collaborativo con 21 Savage (comunque presente anche in Honestly, Nevermind e, manco a dirlo, in For All the Dogs) e il manifesto per nulla sibillino proposto in occasione di Titles Ruin Everything hanno sciolto ogni dubbio su quale fosse la rotta, creando così un’attesa febbrile per questo disco nonostante fosse il terzo in pochi mesi e nonostante nessuno fosse realmente in astinenza da nuovi brani di Drake.
In ogni caso il 2022 di Honestly, Nevermind è il vero anno zero di For All the Dogs: una mossa di cui ora capiamo a pieno il valore discografico (del resto Drake svolge egregiamente il lavoro di produttore discografico con la sua Ovo, e queste dinamiche le conosce, e se non le conosce in qualche modo le vive) e che fa sì che un disco normale passi come un ritorno alle origini, una categoria che da sempre piace molto a pubblico e critica e che sottintende una certa autenticità implicita nella consapevolezza delle proprie radici. E l’impressione, quando parte il sample di Wiseman (gioiello di Frank Ocean scritto per Django Unchained poi escluso da Tarantino nel montaggio finale) che fa da cardine a Virginia Beach, è che davvero la cosa si stia per fare seria, e che il disco sarà un capolavoro di autocoscienza in cui Drake darà, ancora una volta, il meglio di sé. La seconda traccia, Amen, con un ottimo Teezo Touchdown e con un mai fuori luogo approccio gospel, conferma l’impressione iniziale facendo anche un po’ commuovere e portando chi ascolta ad iniziare a sfregarsi le mani. Più le tracce scorrono però più Drake sembra essere sottotono, tanto che risvegliare l’attenzione è un onere prima di J Cole, che si gioca alla grande il suo slot nel disco in First Person Shooter, e poi di SZA, che compare in Slime You Out, una delle tracce meglio riuscite del disco.
Oltre al tenore musicale delle tracce, in generale anche la penna di Drake, di solito tanto elogiata, sembra scarica, intrappolata nel proposito di rispettare la sua stessa dichiarazione di intenti. Tutto il disco in fondo dà quest’impressione: non è mai brutto, non è mai fatto male, non c’è mai qualcosa di troppo da costringerci a skippare. Però è un disco di mestiere, in cui tutti fanno né più, né meno quello che devono fare. E un disco di mestiere è un disco a cui è difficile credere: si ha sempre il dubbio che Drake non sia sincero, addirittura si può sospettare che nemmeno lui sia convinto per davvero di quello che sta facendo.
E così il suo ritorno alle origini, la sua ricerca del vecchio Drake, che poteva essere la premessa di un capolavoro, sembra più che altro una mossa fan service mal celata, che fa sorgere dei dubbi persino sulla sua autenticità. Con una pulce del genere nell’orecchio, sorgono delle domande anche sulla velocità con cui questo processo è stato presentato: Honestly, Nevermind è dello scorso anno, nel mezzo ci sono stati il disco con 21 Savage, il libro e un numero enorme di spettacoli dal vivo. Troppa roba in troppo poco tempo per credere che ci sia stata davvero una riflessione approfondita su cosa sia per Drake il vecchio Drake, se abbia senso andarlo a cercare.
Detto questo, Drake rimane un fuoriclasse e conosce il mestiere della scrittura e della vendita di dischi alla perfezione: difficile pensare a un disco brutto di Drake, e ancora più difficile pensare a un suo disco che non stracci record su record tra classifiche e piattaforme streaming. A proposito, in First Person Shooter, in cui Drake ribadisce chi è il GOAT e si paragona, per grandezza, al Super Bowl, viene lanciata la sfida a Michael Jackson: “I’m one away from Michael, n***a, beat it”. Si riferisce ai brani al primo posto della Billboard Hot 100: MJ è fermo a 13, Drake è arrivato a 12 con Slime You Out e ha messo definitivamente la freccia per il sorpasso. Sarebbe – anzi, sarà – l’ennesimo record di un cantante che, almeno da questo punto di vista, non sbaglia mai: si può dire qualsiasi cosa, ma alla fine il mondo dà sempre ragione a lui.
Nel frattempo Drake ha annunciato una pausa dalla musica di durata non precisata per risolvere problemi di salute («niente di esagerato»): la speranza è che questa pausa farà bene anche alla sua creatività.