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Cure, esorcizzare la fine, cantandola: la recensione di ‘Songs of a Lost World’

La lunga attesa è finita, ed è finita bene. Il nuovo album degli inglesi si colloca idealmente nel filone che parte da ‘Pornography’ e passa da ‘Disintegration’ e ‘Bloodflowers’. Un altro bel disco per chi si sente un po’ alieno su questa Terra. Un gran finale o un nuovo inizio?

Foto: Giuseppe Craca

Vagheggiare con compiacimento il finale è uno degli sport preferiti di Robert Smith. Ha cominciato presto, ai tempi di una delle vette inarrivabili dei Cure, quel Seventeen Seconds che aveva scombinato tutte le carte in tavola da parte di un promettente gruppo del Sussex che inizialmente voleva “solo” emulare, alla sua maniera, Elvis Costello, i Buzzcocks o al massimo gli Stranglers. Smith a quel tempo aveva appena 21 anni e non era ancora un ex “ragazzo immaginario” con l’eyeliner, il rossetto rosso sbavato e un nido di capelli cotonati in testa.

Era il 1980. Assieme a Lol Tolhurst, Matthieu Hartley e Simon Gallup si era reso protagonista di una rivoluzione sonora inventando sostanzialmente un nuovo genere musicale: perturbante, alienante ma sublime. Chiamatelo dark, goth o come preferite. I Cure stavano diventando i Cure.

Nel 2004, ripercorrendo la sua discografia fino al deludente album omonimo uscito quell’anno, dichiarò all’edizione americana di Rolling Stone che durante la lavorazione di quel disco, riconoscendone l’unicità, avrebbe cominciato a prendere forma nella sua mente una specie di rituale dell’epilogo artistico: «Da quel momento in poi, ho pensato che ogni album sarebbe stato l’ultimo dei Cure; quindi, ho sempre cercato di fare in modo che fosse una specie di pietra miliare». Aggiungendo, però, che Seventeen Seconds era una delle poche opere della band in cui aveva ottenuto quel risultato.

Le convinzioni artistico-piscologiche di Smith – unico componente stabile della ditta Cure (Simon Gallup, bassista storico, ha “bucato” la lavorazione di tre album) che nel tempo ha cambiato molte line-up fra piccoli drammi e colpi di scena – si sono però infrante contro le sue virtù. Lo scoglio di una discografia impeccabile che in 15 anni, dal 1978 al 1992, è stata costellata di capolavori e di successi si è rivelato troppo grande, anche per il suo principale creatore. Dopo i fasti dark (a Seventeen Seconds sono seguiti i celebrati Faith e Pornography), la svolta pop (The Head on The Door e Kiss Me Kiss Me Kiss Me) e i trionfi dell’accoppiata Disintegration/Wish sono stati pubblicati lavori poco incisivi o irrisolti come Wild Mood Swings (1996), Bloodflowers (2000), il già citato The Cure (2004) e 4:13 Dream (2008), l’ultimo disco dei Cure in ordine temporale.

I fatti sono andati ben oltre le nobili intenzioni del cantante di Crawley, nativo di Blackpool. I Cure del nuovo millennio sono stati una grande band consolatoria che ha continuato a giganteggiare e impressionare con le sue tournée ma con il marchio del passato glorioso come fonte d’ispirazione principale. Forse a causa dei semi-flop commerciali, proprio dal palco è scaturita una forma di riscatto. La band ha cominciato a disseminare di canzoni nuove le setlist dei concerti. Prove generali di un nuovo fatidico album. Songs of a Lost World, di cui Smith ci parla almeno dal 2019, è nato così. Mettendolo a fuoco di fronte ai fan di mezzo mondo durante le 91 date di un tour che, sin dall’intestazione, lo evocava come un album del futuro prossimo. Shows of a Lost World, 91 concerti a cavallo fra il 2022 e il 2023, è stato in questo senso un inedito. Non tutte le canzoni presentate si trovano sul nuovo disco, ma cinque su otto sì. E registrate in studio suonano molto meglio rispetto alle loro “bozze” live.

Dopo trent’anni dall’ultimo capolavoro (Wish, 1992), finalmente, qualcosa è cambiato. Perché Songs of a Lost World riporta i Cure ai massimi livelli espressivi della loro discografia. La lunga attesa è finita ed è finita bene.

Anticipato dai singoli Alone e A Fragile Thing, il quattordicesimo disco della band, il primo in 16 anni, sarà disponibile a partire dal 1° novembre. Lo abbiamo ascoltato in anteprima e anche se ne abbiamo avuto solo un assaggio mentre avremmo voluto ascoltarlo molto più a fondo siamo convinti che, usando una metafora calcistica, andrà diritto nella parte alta della classifica della discografia della band inglese.

Robert Smith nel 2024. Foto: Sam Rockman

Scritto e arrangiato interamente da Robert Smith, l’album è stato prodotto e mixato dal cantante e da Paul Corkett, ingegnere del suono ai tempi di Wild Mood Swings e poi produttore di Bloodflowers, presso i Rockfield Studios in Galles. Oltre a Smith e Gallup ci sono i musicisti che l’hanno accompagnato in questi ultimi anni di carriera tra cui Jason Cooper alla batteria, Roger O’Donnell alla tastiera e Reeves Gabrels alla chitarra.

Alone, il primo singolo che sfora i sei minuti, offre un attacco icastico e programmatico “This is the end / Of every song that we sing”. È di certo la canzone manifesto dell’album. Un pezzo orchestrale attorno a cui aleggia un’aura spaziale profondamente malinconica. E che racchiude in sé connotati lessicali semplici ma precisi nella loro universalità (scrivere e restare aderente a un mondo di parole riconoscibili, in stile Cure, era una delle maggiori preoccupazioni di Smith).

Sono i Cure come ce li ricordavamo, grandi autori di affreschi musicali – Disintegration viene più volte in mente durante l’ascolto del disco – ma, per uno strano effetto percettivo, è come se venissero ascoltati da un’umanità evaporata, svanita. Vista da una notte stellata. Forse da un altro pianeta. La copertina stessa, ideata da Smith ed elaborata da Andy Vella, fedele collaboratore del gruppo, ritrae una scultura del 1975 di Janez Pirnat, intitolata Bagatelle, che ricorda il famoso Volto su Marte pubblicato dalla NASA nel 1976. Smith, sognatore e stargazer, ha raccontato che nel suo girovagare inquieto di notte (pare che viva con sua moglie Mary in un piccolo paese sul mare inglese del West Sussex), quando le stelle si spengono e arriva l’alba di un nuovo giorno, nutre spesso un senso d’angoscia, abbandono e solitudine che ha voluto distillare nel brano.

And Nothing Is Forever e I Can Never Say Goodbye (introdotta dai suoni delicati di un temporale sullo sfondo), sono canzoni romantiche e dolenti. La prima è dedicata a una persona cara a cui Smith aveva promesso di star vicino sul letto di morte, l’altra è un tributo a Richard, fratello maggiore del frontman scomparso prematuramente, dopo la perdita dei genitori. Warsong e Drone:NoDrone si avventurano in vortici sonori di feedback, effetti e distorsioni: la prima sembra una outtake di Disintegration mentre la seconda, ispirata dal senso di oppressione di Robert Smith per lo spiacevole “incontro” con un drone volante sopra la sua proprietà, è la Never Enough del 2024.

Endsong è il contraltare di Alone, il suo richiamo finale, la sua stessa citazione (“It’s all gone, it’s all gone”). Scritta nel 2019, pensando ai suoi 60 anni e al cinquantenario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, il brano conclusivo del disco (che in un primo momento si doveva chiamare Live from The Moon) rappresenta l’immagine sconsolata di Robert Smith che guarda la faccia immutabile del nostro satellite sapendo che invece qui sulla Terra per lui – e un po’ anche per noi – è tutto cambiato. Quando canta “Left alone with nothing”, ripetendo la parola “nothing”, sembra citare i Wilco di Misunderstood. E di incomprensione, qua sul pianeta Cure, ce n’è parecchia. Imbastita su un beat circolare, profondo, marziale, avvolto da tastiere e da accordi dei Cure anno domini 1989, spezzato dopo oltre due minuti dalle aperture chitarristiche che “spaccano” la canzone, potrebbe essere anche un bellissimo brano strumentale. Non a caso i Cure affideranno alla versione deluxe del disco tutti i brani strumentali come fosse un album da pubblicare a parte (per gli audiofili uscirà anche un’edizione half speed mastering su doppio vinile).

Coi 10 minuti e passa della chiusura Smith si fa ulteriore beffa delle regole dello streaming. Inizia a declamarne il testo dopo ben sei minuti (in Alone la parte cantata giunge oltre il terzo minuto). Evviva i Cure, ci viene da dire. La lunga coda di chitarra elettrica chiude maestosamente un grande disco.

Songs of a Lost World non è un disco pop. Dentro non ci troverete singoli immediatamente riconoscibili come furono Lovesong, Close to Me o Why Can’t I Be You?. Anche se il discorso sull’appartenenza a un genere piuttosto che a un altro dei Cure non ha mai convinto (la band di Smith ha una storia e un sound troppo personale ed eclettico per essere liquidato con un’etichetta) si può tranquillamente affermare che queste nuove canzoni appartengono, come si sarà capito, alla facciata più malinconica della discografia. E d’altronde chi ha avuto la possibilità di andare ai concerti o chi semplicemente si è messo a cercare su YouTube i numerosi video tratti dai live più recenti, si è potuto fare un’idea di come suonano le canzoni. Altra cosa, però, è sentirle nelle versioni arrangiate in studio. Che sono davvero tutta un’altra cosa.

Più che sulla natura commerciale o meno del disco (non è detto che un album per lasciare un’impronta debba avere un singolo orecchiabile anche se A Fragile Thing ha una sua riconoscibilità immediata) o sull’antitesi fra Cure poppettari o “duri e puri” – una contraddizione su cui Robert Smith ha giocato molto nei 45 anni di attività della band – credo che valga la pena di ragionare sull’omogeneità o diversità all’interno di Songs of a Lost World e sulla sua forma. Forse il discrimine più verosimile all’interno della discografia dei Cure è davvero solo questo. Per spiegarmi meglio: ci sono dischi che sono compatti, coesi (qualcuno direbbe monolitici) come Pornography, e altri che sono più sfaccettati e poliedrici come Kiss Me Kiss Me Kiss Me. Songs of a Lost World fa parte della prima categoria.

E se Bloodflowers chiudeva la “trilogia” immaginata da Smith – preceduto dai capitoli Pornography e Disintegration – si può tranquillamente dire che Songs of a Lost World è un prolungamento, una sorta di sedimento emotivo, meno disperato e a tratti disincantato, ma decisamente meno catartico proprio del capitolo centrale del trittico. Disintegration, la cui rivisitazione per i concerti celebrativi del trentennale alla Sydney Opera House, è stato come ha ricordato lo stesso Smith la chiave di volta per dare una forma al disco.

Con Songs of a Lost World il leader dei Cure è riuscito nell’impresa di superare di nuovo sé stesso, come si proponeva a 21 anni. In italiano diciamo chiudere in bellezza, in inglese “to end with a bang”. E torna ancora la parola fine, uno dei termini più usati dai Cure, non solo in questo capitolo della loro storia. Una fine che più si pronuncia più sembra esorcizzare sé stessa. Ma siamo sicuri che questa sia la conclusione e non invece l’inizio di un terzo e ultimo atto dei Cure?

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