Il teorema di Arbasino sembrerebbe scritto apposta per il bulimico e accelerato rap game italiano dove il passaggio dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo” è più rapido che mai. Fino a oggi nessuno però era riuscito a completare la frase, l’eccezione aveva ancora i puntini di sospensione: “Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. E finalmente ecco i Club Dogo tornare dopo dieci anni – che nell’era dello streaming sembra un secolo – a prendersi il titolo di “venerati maestri” della scena con un disco fedele alla linea senza essere nostalgico, attento alle aspettative di una fan base molto esigente, e ispirato nella riscrittura di quel mondo di mezzo che è lo street rap, un immaginario iper realistico e identitario che i Dogo hanno costruito rima dopo rima e di cui tutti i rapper più giovani si sono appropriati.
Già, perché se la discografia dei Dogo è stato il libro di testo per ogni aspirante lyricist hip hop, queste nuove tracce sono il loro romanzo, il memoir che avvera “il sogno di ogni zanza” (cit. Guè) e che lascia in eredità alle nuove generazioni l’idea romantica che il rap si faccia non (solo) per i soldi e per il successo, ma per un fuoco sacro, una passione ossessiva per la musica. Si sente, ora ancora più chiaramente di dieci anni fa, l’ossessione di Jake e Guè per la punchline perfetta, per le rime che diventano tatuaggi, per il balance giusto tra tecnica e spontaneità. Roba da scrittori navigati, insomma, e anche se la scena non assegna ancora un riconoscimento che non siano quei pacchianissimi dischi d’oro, vale la pena sottolinearlo almeno qui: i Dogo, vuoi per esperienza vuoi per formazione (“il poco che abbiamo studiato, materie classiche e la coca col bicarbonato” rappa Jake in C’era una volta in Italia), sono insieme a Marracash – non a caso uno dei pochi feat del disco, pazzesco tra l’altro – le migliori penne della scena.
Non importa se il mondo che raccontano è sempre lo stesso e le autocitazioni ricorrono, “l’inno alla marmaglia” (cit. Jake) è un atto dovuto nel contratto di strada che hanno firmato anni fa col mondo di mezzo, tra il legale e l’illegale, buoni e cattivi, il malandrino a cena con l’avvocato, in quella Gotham City di provincia che è Milano, come hanno mostrato nel video che annunciava il ritorno dei Dogo (tra gli attori c’era anche il sindaco Beppe Sala). E non è un caso che la presentazione dell’album ieri sera fosse alla Triennale, tempio radical chic della città, cattedrale fichetta della cultura: non, come dicono in Gomorra, “Mo ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ’o nuost”, ma un ancor più strafottente conquista di un privé – quello culturale – che gli è sempre stato negato. È l’assalto a Capitol Hill del rap italiano, i piedi sulla scrivania di design, alla faccia degli intellettuali veri e presunti.
Arbasino (che scrisse in tempi non sospetti un libro dal titolo Rap!) avrebbe apprezzato. In cima alla scalinata della Triennale, tra bandiere e passamontagna, all’una di notte le casse hanno suonato il nuovo disco: le prime due tracce – C’era una volta in Italia e Mafia del boom bap – sono un esplosivo esercizio di stile, rime di auto celebrazione e basi omaggio alla tradizione hip hop, con tanto di scratch. Il clima “dogofiero” – come direbbero loro – si stempera nelle tracce successive per esplorare gli altri territori cari al gruppo: ritornelli emo melodici a fare da contrappunto a barre serrate dal flow old school (Nato per questo con Marracash e Soli a Milano con Elodie), ritmi reggae in levare (King of the Jungle) e rapping stiloso (Milly con Sfera Ebbasta).
La produzione musicale di Don Joe è coerente nel rinnovare il marchio di fabbrica, non fa concessioni ai trend del momento, anche se tutti i file delle tracce hanno un aggiornamento automatico al 2024, almeno in freschezza. E se Guè e Jake – come accennavo prima – non cambiano lo storytelling, continuando a creare anthem “per la gente”, il loro lavoro di artigianato sta nel cucire con dettagli sempre nuovi i pezzi originali. Un mestiere che i più giovani dovranno imparare se vorranno resistere al mercato, e magari tornare dopo dieci anni d’assenza, come venerati maestri e non come soliti stronzi.