Alcuni anni fa, in una vecchia libreria dell’usato di Oxford trovai due numeri del 1980 della fanzine Today, Tomorrow and Forever dedicata a Elvis Presley e fondata e curata da due tizi di Gloucester di nome Diana e Ray. Acquistai le copie a un pound e ne fui molto soddisfatta: la fanza, che prendeva il titolo di una ballad del re di Memphis uscita nel 1964, conteneva tra le altre cose alcune indicazioni per prendersi cura del mito di Elvis nel presente e nel futuro, una puntuale analisi elvisiologica dell’amore e, come pezzo di punta, un’intervista esclusiva a un cugino di terzo grado. Elvis era morto tre anni prima, al centro dell’agosto 1977, e nonostante la sua caratura non era stato il primo a dar vita a quell’idea letterariamente mostruosa che oggi avvertiamo come parte integrante e ineludibile della definizione di rockstar, cioè il principio per cui chi ha incarnato il moto rivoluzionario del rock’n’roll, con tutte le sue distorsioni umane e performative, ha fatto un patto col diavolo in grado di garantirgli, in qualche forma, il diritto di non morire mai – idea che anche la fanzine di Diana e Ray di Gloucester patrocinava con una certa convinzione.
Tuttavia nel caso di Elvis (e non, ad esempio, in quello di un altro grande immortale della sua specie, morto in realtà sei anni prima, e cioè Jim Morrison) alla non-morte della rockstar andava acclusa una forma di accettazione speciale del suo decadimento in vita, della sua caduta. Non è in fondo un caso che il disco che per eccellenza mette in scena le gesta di una fittizia e simbolica figura di rocker per antonomasia con tutti i crismi insieme del rock e dello star system, si intitoli proprio The Rise and Fall of Ziggy Stardust (and the Spiders from Mars), enfatizzando questo sussistere e susseguirsi delle due fasi della storia: l’ascesa e il declino. Elvis in sostanzioso sovrappeso che si ammazza di hamburger e cibo spazzatura davanti a uno dei molti televisori di Graceland, Elvis dipendente tanto dalle pillole quanto dalle angherie del suo manager, il Colonnello Tom Parker – intorno al quale ruota anche buona parte del recente Elvis di Baz Luhrmann – sono solo alcune delle immagini di un mito che la vulgata vuole a un certo punto devastato, distrutto, a un passo dalla morte. Qualsiasi fan di Elvis, tuttavia, e con lui qualunque attento ascoltatore di musica in qualunque parte del pianeta, concorderà nel ritenere alcune espressioni artistiche di quello che il mondo sminuisce e liquida brutalmente come Fat Elvis come le massime punte espressive dell’artista.
In Elvis, e solo grazie all’approdo a una fase decadente, finiscono per convivere in modo perfetto i due mondi necessari alla grandezza del pop: da una parte la hit, il piedistallo, dall’altra la complessità, il dramma, l’umano che spinge per esistere davanti al suo stesso pubblico, in altre parole gli estremi opposti intorno a cui continuamente ruota quello che i Sex Pistols chiamavano great rock’n’roll swindle. Quando apprendo che il nuovo disco dei Baustelle si intitola Elvis penso istintivamente a una celebrazione del rock’n’roll in ognuna di queste parti, penso all’istinto verso un suono accattivante, godibile, poco placido, ma pure a una certa simpatia, a una certa inclinazione verso l’inclusione della parte più decadente della faccenda, il Fat Elvis che alberga in ogni progetto musicale con una certa vita alle spalle, qualcosa che per me significa non tanto divano, hamburger, tv e depressione quanto inclusione delle possibilità del tempo adulto e pezzi belli come Suspicious Mind.
In questo senso, questi Baustelle non deludono. Quando raggiungo Francesco Bianconi in studio per ascoltare i master del disco un mese e mezzo fa, sento subito affacciarsi dalle casse un nuova tensione italoamericana, dai pianoforti dell’album emerge quella che per il gruppo è un’inedita attenzione al soul, come in un collage psichedelico che vibra e sfila velocissimo nella mia mente visualizzo in modo immediato la dedica a Randy Newman nel retro copertina di Le città di frontiera di Ivano Fossati (1983) prodotto da Alan Douglas, ma pure la faccia distorta e mossa di Lou Reed sulla cover di Rock’n’Roll Animal, Marc Bolan seducente e bruciante che canta Life’s a Gas, gli assoli di sax disseminati nella sua discografia – e quel modo un po’ sordido e implusivo di soffiare dentro lo strumento tipico del glam, il punto in cui la sporca classicità di Little Richard si congiunge alla canzone sinfonica di Brian Wilson. Elvis mette le mani negli spaghetti e si lecca le dita, fa dell’espressione “all’italiana” un punto cardinale lussurioso, speciale e inevitabile, ne saccheggia il beat (Equipe 84) il pop più cheesy (Ricchi e Poveri), l’estetica camp più languidona (Notte rosa, Umberto Tozzi), scova il ben suonato, un pop-rock articolato e pensato laddove la storia ha voluto vedere solo qualche hit e lo fa suo, lo dissotterra nell’ispirazione.
Dopo la parentesi solista di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi non era affatto scontato non solo ascoltare un nuovo album della band ma sentirlo pulsante, vivo di una vitalità rinnovata, come mi raccontavano qualche settimana fa, intervistati in occasione dell’uscita del secondo singolo Milano è la metafora dell’amore, per il gruppo è stato necessario circondarsi di nuovi musicisti, artisti giovani, con una visione non solo esecutiva ma di ideazione e di scrittura: Alberto Bazzoli (piano e Hammond), Lorenzo Fornabaio (chitarra elettrica e acustica), Julie Ant (batteria e percussioni) e Milo Scaglioni (basso e chitarra).
Nel disco ci sono tableaux vivants cittadini che danno origine a ritratti (Jackie e Los Angeles), a vagheggiamenti psicoanalitici a partire dal quotidiano osservato (Cuore), la spinta stoned un po’ calcata e provinciale che riassume l’anima decadente di Elvis (Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club), la politica anti FOMO postpandemica (Andiamo ai rave) e antifascista (Milano è la metafora dell’amore), almeno un capolavoro post-analitico e figlio diretto di Forever, l’album solista di Bianconi, (Il regno dei cieli). Non solo: in questo lavoro si tengono insieme una tensione alla spiritualità rock, attraverso l’uso di un vocabolario ma anche di un coro gospel, la messa in scena di qualcosa che forse inizia in storie di ibridazione sonora e di immaginario che hanno radici molto lontane (Aretha Franklin che canta Carole King nel suo statuario Amazing Grace è solo un esempio) mescolando il sacro e il profano in una dualità che incrocia anche il continuo rimando ad Eros e Thanatos che è una delle chiavi espressive centrali del rock’n’roll. Insieme a Dio c’è la poesia, sempre pronta a distruggere il poetico e ogni tentativo di abbassare lo sguardo verso le forzature liriche: Louise Glück, Eugenio Montale, Valerio Magrelli, Franco Loi, Francis Bacon, i testi di Dylan più radicalmente gettati, vomitati in direzione dell’ascoltatore, il verso e l’amore come forme di resistenza, il senso della lotta di cui scriveva Michel Houellebecq e che, alcune notti, temiamo di aver perduto.
Elvis è un disco scattante, breve perché affilato, è un lavoro maturo che come Presley nella sua maturità svela la qualità anche dentro i suoi eccessi, un disco che porta avanti lo sguardo e il senso, l’attenzione e il battito, l’uomo e l’animale e se vi pare poco.