Stai a vedere che i Linkin Park han fregato tutti, quelli che «come vi permettete, Chester è insostituibile», quelli che «è tutta una questione di soldi», quelli che «non ne uscirà nulla di buono», forse persino quelli che «parlateci di Scientology». Li han fregati facendo un buon disco in equilibrio tra quel che erano ieri (anzi, l’altro ieri) e quel che sono oggi, con una cantante e un batterista nuovi e relativamente giovani, un suono chitarroso d’impatto, una fame di musica che vien fuori in modo limpido, forte, netto.
Probabilmente non sono l’unico ad aver schiacciato play senza aspettarsi granché da From Zero, forse prevenuto nei confronti d’un gruppo che negli ultimi anni d’attività era in calo e che dopo aver perso un cantante carismatico come Chester Bennington ha scelto di continuare a far musica col vecchio nome, che è un’opzione legittima ma pur sempre discutibile. E invece questi 32 minuti di musica – viva i dischi brevi – ci restituiscono un gruppo più vivo di quello d’una decina d’anni fa. Non male per come vanno le cose nel rock, dove gli anni logorano la creatività e c’è l’inevitabile tendenza a sclerotizzarsi.
Più vicino a The Hunting Party o ai primi due dischi che a One More Light, l’ultimo inciso con Bennington, From Zero è l’album pop-metal che non sospettavo potesse suonare tanto bene nel 2024. Lo si deve anzitutto alla produzione brillante di Mike Shinoda e poi all’accostamento tra la sua voce e quella di Emily Armstrong, che porta i pezzi in una dimensione diversa rispetto ai vecchi Linkin Park. Il loro interplay è una delle cose migliori del disco. Armstrong ha ascoltato parecchio hard & heavy, ma scommetto che si è anche esercitata a ripetere le urla gutturali che ha sentito nelle canzoni dei Nirvana. In certi passaggi, il suo canto violentemente strozzato fa più Cobain che growl.
Non c’è niente di sofisticato e men che meno avanguardistico in From Zero: è un disco che vuole essere mainstream e per esserlo parla un linguaggio semplice, diretto, immediato. È uno di quegli album che t’impressiona al primo ascolto, ma cala nei successivi. Il suono è pulito, per certi versi pop, c’è qualche scratch di Joe Hahn. Aleggia un sentimento di rabbia e a volte d’angoscia, che però il tono delle musiche trasforma in epica, come avviene in The Emptiness Machine, uno dei singoloni rock del 2024. Nella maggior parte dei casi i testi sono sufficientemente vaghi da risultare universali e adattabili a tante cose e difatti la gente sta tirando a indovinare: cantano di una relazione, di salute mentale, di politica, della band, di Scientology?
A me pare siano spesso rappresentate relazioni tossiche in cui è necessario rinegoziare i rapporti di forza, da una parte c’è chi ha dato tutto e dall’altra chi non ha dato niente, ma anzi ha preso e sfruttato e sottomesso. Ma come spesso accade nel rock, questi ritornelli possono essere cantati a squarciagola in concerto senza farsi troppe domande. Sembra anzi che certe esclamazioni siano fatte apposta per essere portate nei festival estivi e urlate col pubblico in un’esperienza catartica: “D’ora in poi non avrò più bisogno di te!”, “Smettila di urlarmi addosso!”, “Non sarò una tua vittima!”, “Liberami!”.
Se suonano famigliari è perché rimandano a temi come salute mentale, tossicità, empowerment che negli ultimi anni sono diventati pop. E chissà che l’espressione d’ansia e angoscia abbinata al senso di antagonismo e liberazione trasmesso dal disco non permetta al gruppo di sintonizzarsi con le inclinazioni e i bisogni di chi all’epoca di Hybrid Theory non era nato. È anche una questione di genere. Il fatto che Armstrong sia donna è doppiamente interessante, la fa smarcare dal confronto con Bennington e le dà un supplemento di credibilità mentre canta di questi argomenti in un’era di femminilizzazione della musica popolare. Inutile fare confronti con Chester e il suo tormento: è un’altra generazione, un’altra epoca, un’altra cantante, un altro mondo.
Alla fine i momenti migliori sono quelli viscerali, quando la band picchia duro (bene il nuovo batterista Colin Brittain, anche co-produttore con Brad Delson) e la dinamica tra le parti è esaltata. I pezzi meno a fuoco sono quelli in cui i Linkin Park cercano d’uscire dalla formula canta-lui-canta-lei-ti-schiaffeggiamo-per-tre-minuti-e-poi-ce-ne-andiamo, come Overflow, coi suoi echi vagamente dub, oppure Over Each Other, dove s’avventurano nella ricerca di una melodia un po’ facile che alla lunga trovo stucchevole. Si sente la mancanza di tre, quattro pezzi più solidi, ma su disco questi Linkin Park, sia detto con rispetto, mi sembrano comunque meglio di quelli spompati degli ultimi anni con Bennington.
“Da zero?” chiede Armstrong nella prima traccia. Una specie di risposta arriva molte canzoni dopo in un altro dialogo che sembrerebbe registrato in sala d’incisione: “Siamo sulla stessa lunghezza d’onda”. Sembra proprio così: i Linkin Park cercano di ripartire da zero (o da Xero, come si chiamava la prima formazione), con Armstrong perfettamente integrata. In fondo la casistica dei gruppi rock che se lo son cavata dopo aver cambiato un grande cantante è ricchissima. Alcuni hanno prosperato come e più di prima, i nomi li sapete, si va dagli AC/DC agli Iron Maiden, e non è che prima avessero frontmen mediocri o poco caratterizzanti. Altri han fatto disastri. Altri ancora si sono ficcati in casini immani, legali e umani, dimostrando nel bene e nel male (soprattutto nel male) che il brand era più importante della band.
Lo è anche in questo caso ed è sempre un dispiacere constatarlo per chi ha un’idea romantica e temo irreale dei gruppi rock, non società di persone ma suppergiù gang. È altrettanto vero che quando un gruppo definisce la tua identità di musicista, metterselo alle spalle è difficile. Forse avrebbero potuto seguire l’esempio di chi ha sottolineato nel nome lo stacco da un passato irripetibile, vedi Queen + Paul Rodgers e Queen + Adam Lambert. Sono loro, ma non sono quelli classici, il brand è salvo, la faccia pure. «Chiamarci in un altro modo sarebbe strano e fuorviante», ha invece detto Shinoda a Billboard. «Insegniamo ai nostri figli che quando cadono devono rialzarsi e riprovarci, giusto? L’idea di mettere in piedi con questi musicisti e con questo sound un progetto diverso equivarrebbe in un certo senso a rassegnarsi».
La transizione è resa più facile e naturale dai tanti anni trascorsi dalla morte di Bennington, dal fatto che non fosse l’unico cantante e autore, dalla presenza di Shinoda che in passato ha messo le mani sulla musica dei Linkin Park più di lui. Il tiro di From Zero fa il resto. Ascoltandolo non si prova né nostalgia, né imbarazzo ed è un’ottima cosa. E quindi, a meno che non abbiate un legame emotivo viscerale col repertorio di Bennington, ci sta che i Rage Against the Machine con Chris Cornell si chiamino Audioslave e che i Linkin Park con Emily Armstrong si chiamino Linkin Park.