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Il disco di Arooj Aftab, Vijay Iyer e Shahzad Ismaily suona come nient’altro al mondo

Ecco cosa succede se metti assieme una cantante pakistana da Grammy, un grande pianista jazz e un polistrumentista inventivo. Non è jazz, non è world music, non è pop: è ‘Love in Exile’

Foto: Ebru Yildiz

Non è jazz, anche se ci suona il pianista Vijay Iyer, che di quel genere è un esponente di rilievo. E non è world music (qualunque cosa significhi) anche se è cantato da Arooj Aftab, che l’anno scorso ha vinto un Grammy in quella categoria. Love in Exile, disco del trio composto dai due con Shahzad Ismaily a basso e Moog, somiglia piuttosto a un viaggio in uno strano, affascinante mondo sonoro fatto di corde, tastiere e… respiro.

Iyer, Aftab e Ismaily hanno cominciato a suonare assieme un anno fa. Da allora, hanno imboccato con decisione la strada della sperimentazione. Non compongono in modo tradizionale, ma si confrontano completandosi, un po’ come un jazz trio, ma anche no. La musica che sta alla base di Love in Exile, il loro primo album assieme, è stata registrata dal vivo a New York e poi lievemente editata, con pezzi che finiscono per superare i 10 minuti di durata. È una masterclass su come usare gli spazi, nel senso che non è intruppato di suoni messi uno sopra l’altro. Al contrario, i musicisti si muovono tutti assieme in modo armonico, Aftab dice «come un branco di pesci».

Prendete il primo pezzo To Remain/To Return. Inizia con un synth delicato e tintinnante, un suono che somiglia a quello di campanelli a vento, però accelerato. Passa un minuto abbondante prima che Iyer faccia il suo ingresso, infilando nel tessuto del pezzo note di pianoforte. Aftab arriva solo dopo tre minuti e non come cantante principale, come ci si aspetterebbe. Usa la voce non per raccontare storie, ma come strumento, sebbene sia di fondamentale importanza. Funziona anche grazie al suo timbro che è assieme asciutto e caldo. Non si fa prendere dall’emotività, non ne ha bisogno: basta la sua voce così singolare, così potente.

È uno schema che si ripete nel resto del disco, con le linee ripetitive di piano di Iyer che in Shadow Forces s’incastrano con la voce di Aftab, mentre Sajni parte con un suono di basso così pesante da sconquassarti lo stomaco, stemperato da note di pianoforte che sembrano luccichii sulla superficie d’un lago. Alla fine gli strumenti collassano uno sull’altro creando una specie di cacofonia da cui emerge la voce di Aftab che in To Remain/To Return (Excerpt) canta in lingua Urdu la frase che apre il pezzo.

Aftab, Iyer e Ismaily hanno ampiamente dimostrato quanto valgono. Hanno fatto capire di poter occupare il centro della scena coi loro talenti. Sono talmente sicuri di sé da dedicarsi in Love in Exile a qualcosa di più semplice, ma non per questo meno impressionante. E no, non c’è proprio bisogno di definirla questa musica.

Da Rolling Stone US.

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