C’è stato un momento – e quel momento si chiama Carrie & Lowell, anno 2015 – in cui Sufjan Stevens è passato da cantautore di culto ad artista di fama mondiale. Il disco dedicato alla madre appena mancata e al padrino che l’ha sempre sostenuto nelle sue avventure musicali (soprattutto nell’etichetta Asthmatic Kitty su cui Stevens ha pubblicato tutti i suoi album) ha catapultato l’artista in una nuova dimensione consolidata anche da Mystery of Love, colonna portante di Call Me By Your Name di Luca Guadagnino che valse al brano una nomination come miglior canzone agli Oscar.
E come reagì il nostro? Abbandonata subito la formula vincente fatta di sussurri arpeggi acustici, Stevens ha risposto al successo (per intenderci Mystery of Love è fino ad oggi l’unica sua canzone ad essere entrata nella classifica americana) scappandone e dedicandosi a progetti – in pieno stile Sufjan – sperimentali, differenti, a modo loro “invendibili”. Ed ecco così Planetarium con Bryce Dessner dei National, Nico Muhly e James McAllister, The Decalogue, una colonna per un balletto composta con Timo Andres e Aporia, in collaborazione con il padrino. E poi The Ascension, disco di inediti ispirato – totalmente fuori da ogni previsione – a Thank U, Next di Ariana Grande e al pop da classifica, in cui l’elettronica subentra in maniera insistente (come già fu per l’altro progetto pop, The Age of Adz del 2010). E poi ancora Convocations, registrato durante il Covid e dedicato alla morte del padrino Lowell Brams, formato da 49 strumentali divise in cinque volumi come le fasi dell’elaborazione del lutto, Reflections, musica per balletto omonimo composta con i pianisti Timo Andres e Conor Hanick e A Beginner’s Mind, album collaborativo insieme a Angelo De Augustine.
Ora a otto anni di distanza da Carrie & Lowell, Sufjan Stevens è tornato a suonare in quel modo fragile e sensibile che gli è valso il successo internazionale. Javelin, il suo decimo disco solista – composto e registrato da Stevens a casa – che uscirà questo venerdì torna docilmente nei suoni di quel periodo, aggiungendo a quegli arpeggi le orchestrazioni acustiche e i cori celestiali che ricordano invece lo Stevens più barocco di Michigan, Illinois (chissà come sarebbero stati gli altri 48 dischi annunciati e dedicati agli stati americani) e – soprattutto – di All Delighted People, il fortunato EP del 2010 (anche la copertina collage ne è un richiamo evidente). In Javelin queste due realtà vengono condensate, come se ora Stevens avesse raggiunto la necessaria maturità artistica e umana per riuscire a mantenere queste due anime – quella sussurrata e quella caciarona – sotto controllo.
Dentro a Javelin – come in Carrie & Lowell – c’è, prima di tutto, molto dolore. E Stevens l’ha voluto rimarcare subito, scegliendo come uno singolo ad anticipare l’album Will Anybody Ever Love Me? che già dal titolo sottolinea lo stato d’animo del cantautore. Ma il dolore ritorna, sotto varie forme, nel lutto di Goodbye, Evergreen, nella stanchezza relazionale di So You Are Tired, nell’incomunicabilità di Shit Talk, nella catastrofica Genuflecting Ghost e nella metaforica title track. Rispetto a Carrie & Lowell però manca quell’amore totalizzante per le persone amate che riusciva a bilanciare l’oscurità della vita (in quel caso la morte della madre Carrie, in questo caso quella del padrino e l’immanente disastro ambientale); in Javelin di luce ce n’è poca ed appare spesso sotto forma di divinazione, come in Everything That Rises, o in piccole metafore come in My Red Little Fox. O ancora nella conclusiva e vagamente speranzosa There’s a World. Ma come di consueto nella scrittura di Stevens tutto è simbolico ed ogni verso porta con sé un’infinita gamma di possibili interpretazioni. In fondo, per rifarci a un tema tanto caro a Stevens, le sue canzoni sono come le Scritture in cui le interpretazioni non possono che essere esclusivamente personali. Ognuno può ritrovare un proprio universo nelle armonizzazioni celestiali di Javelin.
La nota dolente di Javelin è che – probabilmente – l’obiettività dell’ascolto è invasa dalla recente notizia della malattia del cantautore che a pochi giorni dall’uscita dell’album ha raccontato di aver perso momentaneamente le facoltà motorie a causa della sindrome di Guillain-Barre che lo ha colpito improvvisamente. Sfogliando i suoi social possiamo osservare la quotidiana fatica di Stevens all’interno del centro di riabilitazione per recuperare la forma fisica. A rincuorare però è la sua determinazione, la sua positività e ironia in un racconto che potrebbe certamente essere più drammatico. Sapere che Javelin, almeno per un anno (come da miglior previsione), non potrà essere portato in concerto è un’ulteriore nota di dolore; il mondo ha bisogno di sentire dal vivo un talento come quello di Sufjan Stevens.
Javelin non è il miglior disco della frastagliata discografia di Sufjan Stevens, ma non per questo è un album che si può ascoltare al volo prima di comprenderlo appieno. Ti chiede, quasi bisbigliando, di essere ascoltato, per poi riempirsi i polmoni e cantare a piena voce. Ogni brano infatti è denso di possibili letture e svela nuovi elementi sonori ad ogni ascolto. Javelin è un album che ti porta in alto, innalzandoti al cielo, e allo stesso tempo ti butta giù, tre metri sotto terra. Ed è, in tutto e per tutto, Sufjan Stevens, ispirato come non lo era da anni; la dimostrazione che le belle canzoni (che parlano di vita, d’amore, di morte) hanno ancora un potere magico.