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In ‘Luck and Strange’ David Gilmour canta una scintilla di vita tra due eternità di tenebra

La famiglia, la vecchiaia, i fantasmi, la morte. I ricordi, il Covid, l’Ucraina. Nabokov e i Pink Floyd. E quel che non sa dire a parole, il chitarrista lo dice con le dita. La recensione

Foto: Anton Corbijn

“La culla dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra”, scriveva Vladimir Nabokov nell’incipit dell’autobiografia Parla, ricordo. “Sebbene siano una coppia di gemelli assolutamente identici, l’uomo, di regola, guarda all’abisso prenatale con più calma rispetto a quello verso cui è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci l’ora)”.

La vecchiaia e l’inevitabilità della morte non sono argomenti granché rock’n’roll o forse lo sono diventati per forza giacché buona parte dei protagonisti dell’epoca d’oro viaggia verso gli 80 anni, quando non li ha già superati. Di sicuro sono temi che interessano David Gilmour che ha sbirciato quel passo di Nabokov negli anni ’70 mentre si trovava in aereo. Cinquant’anni dopo, il passaggio sullo spiraglio di luce tra due eternità è emerso in una canzone composta con la moglie e scrittrice Polly Samson. S’intitola A Single Spark, è morbida, ha una cantabilità d’altri tempi e in qualche modo detta il tono dell’album Luck and Strange che ha a che fare con la morte, la vecchiaia, i fantasmi, il ricordo, l’amore, la famiglia.

Da quando ha ripreso a far dischi solisti nel 2006, coi suoi tempi straordinariamente dilatati e la voglia di fare la rockstar pari a zero, David Gilmour non ha fatto altro che confrontarsi con l’ingombrante e imprescindibile eredità dei Pink Floyd. Così come ne ha assunto mal volentieri la guida dopo lo scazzo epocale con Roger Waters, che da egocentrico qual era lo dileggiava pensandolo incapace di rimettere in piedi la band, da solista Gilmour ha in parte assecondato e in parte frustrato le aspettative di certi fan, che da lui vogliono l’album che i Pink Floyd non faranno più o almeno qualcosa di simile. Vogliono l’eternità, ma lui è in grado di dare loro solo un breve spiraglio di luce.

Anche Luck and Strange, che per coincidenza uscirà il 6 settembre, giorno dell’81esimo compleanno di Roger Waters, si basa su questo conflitto, anche se viene presentato come un disco di rottura. C’è questa storia secondo cui il produttore Charlie Andrew avrebbe chiesto a Gilmour perché mai ogni pezzo debba contenere un assolo, cambiando l’impostazione dell’album con questa domanda e con un’altra sull’abitudine di piazzare i fade-out a fine canzone. È un bella storia, ma la verità è che sono ben sette su nove (se non si conta la già nota Yes, I Have Ghosts) le canzoni del disco che contengono assoli di chitarra. E sono eseguiti meravigliosamente bene.

Questo per dire che Luck and Strange non è un disco radicalmente diverso dai precedenti, anche se Gilmour può effettivamente avere beneficiato della presenza d’un produttore non intimorito dalla sua storia, uno che gli ha chiesto «Rick chi?» all’ennesimo aneddoto sull’amico Richard Wright. I pezzi senza assoli sono lo strumentale di 46 secondi Vita brevis e Sings, che è quindi l’unica vera canzone senza il tradizionale assolone. Gilmour è Gilmour ed è più grande di una frase di Andrew e di una bella narrazione.

E quindi c’è qualche dettaglio che magari non ci si aspetterebbe, ma ci sono anche tanti passaggi che ricordano i Pink Floyd di varie epoche, oltre al suono di un cuore che batte che fa tanto Dark Side of the Moon. Più del cambiamento di produttore e musicisti, nell’album sento, almeno a livello di spirito, l’influenza delle dirette della Von Trapped Family, gli spettacolini casalinghi online fatti tutti assieme appassionatamente dalla famiglia allargata di Gilmour durante il lockdown, un bozzolo (così lo chiama il musicista in Sings) in cui si è sentito protetto. Le dirette sono state un modo per lanciare il romanzo di Samson A Theatre of Dreamers ambientato nella Hydra di Leonard Cohen e hanno dato al musicista possibilità di indugiare sul lato folk allontanandosi ancora di più dall’idea pinkfloydiana che la musica debba essere uno spettacolone elaborato e non una semplice suonatina tra amici.

E quindi Luck and Strange è un disco di rock cosmico-esistenziale in cui è facile rintracciare l’influenza dei Pink Floyd e allo stesso tempo godersi lo stile più casalingo e meno ambizioso d’un musicista che non ha alcuna intenzione di passare troppo tempo in tour (e che vuole fare un altro disco quanto prima). L’atmosfera sospesa, le note di piano gocciolanti e quelle di chitarra tirate dello strumentale piuttosto convenzionale Black Cat aprono la strada a Luck and Strange. Se vi sembra che abbia qualcosa dei Pink Floyd è perché è basata su una jam rock-blues del 2007 (qui presente come bonus track) a cui ha preso parte Rick Wright all’Hammond e al piano elettrico, e si sente. Il testo ha a che fare con la fortuna d’essere cresciuti in un’epoca felice, gli anni ’60, prima che la dura realtà tornasse a bussare alle nostre porte, di recente con la guerra in Ucraina che ha molto colpito il chitarrista essendo la nuora originaria di Charkiv. Essere figli di una “golden age”, essere stati influenzati dai “maestri della sei corde di un universo che si espandeva”: Gilmour la chiama fortuna dei baby boomer, Nabokov lo chiamerebbe forse “genio contrappuntistico del destino umano”.

Uomo di poche parole, musicista che preferisce dire l’indicibile con la chitarra che il banale con le parole, Gilmour s’affida per i testi come sempre alla moglie, che a questo punto è la persona con cui ha collaborato più lungamente nella sua vita. Con un lavoro di limatura fatto a stretto contatto col marito, Samson gli fa raccontare in The Piper’s Call della crisi di inizio anni ’90, quando il musicista sniffava troppa cocaina e aveva accettato il classico patto faustiano, l’anima in cambio del successo, una storia che fa molto Welcome to the Machine anche se la musica è un mix di folk acustico e robustezze alla The Wall tant’è che nello special strumentale viene da cantare “oooooh, I need a dirty woman”.

A quanto pare il Covid ha molto spaventato Gilmour che in Sings canta della sensazione confortante offerta dal lockdown, talmente confortante da non volerne uscire più. È una canzone d’amore sia per la moglie, sia per la possibilità di isolarsi dal dolore del mondo e quindi ha colori chiaroscuri, oltre a un ritornello con una melodia che ha la tipica eleganza naïf di certo pop anni ’60. Il testo della potente Dark and Velvet Nights è la rielaborazione da una lettera scritta da Samson per il marito nell’anniversario di matrimonio, Charlie Gilmour (figlio di Samson e del poeta Heathcote Williams) è fra gli autori delle parole di Scattered, la figlia della coppia Romany canta la cover dei Montgolfier Brothers Between Two Points spiegando col suo candore che bisogna ridere dei pugni che la vita ti dà e facendoci capire che Luck and Strange non vuol essere un discone, ma un affare di famiglia.

Un giorno qualcuno scriverà il saggio definitivo sul rock ai tempi della terza età. Ogni volta che esce un disco come Luck and Strange ci si divide tra chi lo ama follemente perché ricorda il passato e chi lo critica aspramente perché del passato è rimasta solo l’ombra. Hanno entrambi ragione ed entrambi ne esagerano rispettivamente pregi e difetti. Tocca arrendersi all’evidenza e prendere il meglio di quest’epoca in cui la generazione luck and strange, quella dei Gilmour e dei Waters, dei Dylan e dei McCartney, dei Jagger e dei Simon e di tutti gli altri rocker nati nel secondo dopoguerra, sta esplorando un territorio vergine. Probabilmente nessuno di essi negli anni ’60 e ’70 pensava che nel 2024 avrebbe continuato a far musica e quindi a raccontarsi, direttamente o indirettamente, usando il rock che era uno stile giovanile e di rottura, che non voleva cantare la morte e il decadimento, semmai offrire con la sua vitalità prodigiosa un modo per esorcizzarli e illudersi che non sarebbero mai arrivati. E invece eccoci qua.

David Gilmour affronta l’argomento a modo suo e cioè con la classe e la magnifica pacatezza d’un musicista che non avrà fatto pace con Waters, ma con l’eredità dei Pink Floyd sì e che anche quando cerca di fare le cose in modo lievemente diverso non può fare a meno di evocare i dischi belli degli anni ’70. Va in giro dicendo che questo è il suo album migliore dai tempi di The Dark Side of the Moon ed è un’esagerazione e lo sa anche lui che peraltro preferisce Wish You Were Here. Però è vero che Luck and Strange ha un suo timbro e un suo fascino, un modo singolare d’essere malinconico, ma mai fino in fondo, di raccontare in modo contemplativo e mai cupo, né tantomeno disperato il breve spiraglio di luce e l’eternità fatta di tenebra. Come quando in A Simple Spark Gilmour canta che la disperazione gli piega le ginocchia e lo fa in modo amabile.

Nel caso On an Island e Rattle That Lock non vi abbiano convinti, Luck and Strange è la prova definitiva che Gilmour non è, non può essere il guitar hero che molti vorrebbero riavere indietro, ma un 78enne che preferisce suonare con la figlia arpista e cantare di piccoli sentimenti al posto di girare il mondo con show fatti di musica gigantesca e messaggi sullo stato del mondo. Fortunatamente non ha perso né il magnifico colore della voce, né il tocco che rende i suoi assoli (sì, proprio quelli che teoricamente non ci dovrebbero essere più) particolarmente eloquenti. A un certo punto in Scattered, una canzone sull’assurda pretesa di fermare il tempo che passa, parte a suonare e ti perdi nel flusso della musica e pensi che davvero quel che non sa dire a parole, Gilmour lo dice con le dita.

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