‘Joanita’, che disco! La recensione dell’album di Joan Thiele | Rolling Stone Italia
Dialogo col passato

‘Joanita’, che disco!

Ecco perché quello di Joan Thiele è l’album italiano del momento. C’entrano la ricerca di un suono, il recupero creativo del nostro patrimonio, le musiche di Piero Umiliani, il linguaggio dei sogni

‘Joanita’, che disco!

Joan Thiele

Foto: Nicolò Parsenziani per Rolling Stone Italia

Quando appare la scritta “The End” e il corpo del gangster giace immobile vegliato da un agente di polizia e dalla donna che si è sacrificata per lui, parte un tema melodioso e lievemente melodrammatico, carico d’un romanticismo impossibile forse perché negato dalla morte. È l’Epilogo musicale pensato da Piero Umiliani per il film di Siro Marcellini La legge dei gangsters. Siccome la musica cambia significato in relazione al contesto, più di mezzo secolo dopo quello stesso tema suona decisamente più soave e anzi le sue note brillano come riflessi sul mare in una canzone di Joan Thiele. Non accompagna più una scena di morte, ma i “baci di sale tra le vele” che si scambiano due amanti.

Occhi da gangster è una delle canzoni di Joanita, l’album che Joan Thiele ha costruito tenendo in equilibrio riferimenti al nostro passato musicale, storie personali, cadenze contemporanee. È il disco italiano del momento e prende una strada diversa da quella omologata del pop italiano di oggi. La scelta di Umiliani è fortemente voluta. Oltre a immergersi nel mondo delle colonne sonore dei film italiani anni ’60 e ’70, Thiele ha lavorato a Roma negli studi del musicista scomparso nel 2001. Era uno dei massimi compositori italiani di musica funzionale, creatore di uno stile che mescola alto e basso, musica scritta e lounge, arte e artigianato. I registi andavano a chiedergli temi da film e lui li tirava fuori dal “librone” in cui raccoglieva le composizioni che scriveva di continuo, per poi adattarle e riarrangiarle.

È tutto iniziato con un sogno ed è appropriato vista la dimensione onirica di certi pezzi di Joanita. Thiele ha sognato letteralmente di far musica con Umiliani e dopo averlo scritto su Instagram è entrata in contatto con le figlie del musicista Elisabetta e Alessandra, che stavano ristrutturando lo studio del padre. Grazie a loro, Thiele è entrata in quello studio, ha messo le mani sugli strumenti del compositore, ha scelto passaggi delle sue colonne sonore da risuonare, altri ancora li ha campionati portando nelle sue canzoni il recupero di quelle musiche già avviato anni fa grazie alle ristampe, al revival della lounge («Io non so neanche cosa sia», diceva Umiliani), all’interesse di nicchia per la library music, all’opera di musicisti come i Calibro 35, che tra l’altro sono presenti nella colonna sonora del documentario di un paio d’anni fa Il tocco di Piero. Le mille vite di Piero Umiliani.

Il disco con la colonna sonora di La legge dei gangsters s’apriva con Crepuscolo sul mare, meravigliosa composizione per chitarra classica finita anche in una scena di Ocean’s Twelve con Brad Pitt e Catherine Zeta-Jones. Se Lil Yachty l’ha usata anni fa come abbellimento sonoro di Concrete Goonies, un pezzo su bitch false come certe borse di Gucci, Thiele la utilizza in Tramonto come superficie su cui far scivolare pensieri d’amore, di un amore che si desidera e allo stesso tempo non si vorrebbe. La morbidezza di Volto di donna viene usata nelle versioni per vari strumenti pensate da Umiliani per costruire un’altra canzone dall’ambientazione marittima che sembra galleggiare priva di gravità. Come in una magnifica allucinazione, Momento ritmico, pezzo di Umiliani tratto da un disco di Effetti musicali e cioè di musica volutamente astratta e adattabile a vari contesti, viene campionato e ricollocato in un placido mezzogiorno sull’Acqua blu, tra corpi bagnati dal sole e mare eterno. È tutto magicamente presente, quasi palpabile.

Ci sono voluti tre anni per arrivarci. Quando s’è trattato di ideare il suo primo disco in lingua italiana, in pratica una ripartenza, Joan Thiele è andata alla ricerca di un suo suono e di un suo modo di produrre canzoni. Ha trovato l’una e l’altra cosa nello studio e nel recupero creativo della golden age della nostra musica da film, un patrimonio che è nostro e lo riconosciamo come tale, senza però conoscerlo a fondo. E lo si sente in tutto l’album, non solo nei quattro pezzi ispirati a Umiliani.

«Il jazz col suo linguaggio internazionale fa parte della nostra epoca come l’elettricità e l’aviazione», diceva il compositore di Mah-nà mah-nà all’inizio degli anni ’50 per difendere l’uso di una musica considerata all’epoca poco italiana. Oggi si potrebbe dire la stessa cosa dell’hip hop e difatti Thiele e i suoi collaboratori recuperano certi suoni e atmosfere come farebbero dei produttori alle prese con basi rap, ovvero ricontestualizzandoli. Lo fanno in un disco che è sì suonato, ma che non ha nulla di retromaniaco o di passatista. «Ho cercato di ricollocare queste musiche nel presente», dice Joan. «È un disco che parla anche del passato e prende cose dal passato, ma ricollocandole nel presente, per dar vita alla musica e alle mie emozioni di oggi». 

Il risultato di questo doppio dialogo col passato, da una parte le storie di vita e dall’altra le musiche da film, è un disco che somiglia un’allucinazione sospesa in un tempo che è questo ma potrebbe anche non esserlo, un miraggio mediterraneo, un sogno in equilibrio tra il linguaggio essenziale e istintivo della contemporaneità e l’eleganza di un tempo che non tornerà più. Più che rimpiangerlo, quel tempo, val la pena usarlo, riprenderci quel che è nostro, con stile. È un disco di immagini, poco narrativo e molto cinematografico, con i suoni di chitarra tremolanti di certi western e melodie ariose usate con la leggerezza di una che può cantare “ehi caballero” senza imbarazzo. È uno spazio onirico in cui proiettarsi con l’immaginazione.

«Nel mondo della musica leggera, la canzone è come una pietanza e l’arrangiamento è il suo condimento», diceva Umiliani. Joanita è anche un disco di begli arrangiamenti e di timbri interessanti, e oggi non è scontato, ci sono insomma la pietanza e il condimento. Qui le musiche sono importanti tanto quanto le parole, altra cosa rara nell’Italia del pop in cui tutti cantano e pochi suonano. È un album con un’estetica precisa in cui certe immagini si rincorrono da una canzone all’altra, un disco-mondo che s’ascolta dal primo all’ultimo minuto, quando infine appare la dedica cantata della nonna per la “pazzerella mia”.

Joan dice di avere sentito «la necessità di ricollegarmi al carattere istintivo, all’urlo della ragazzina che a Desenzano del Garda suonava i Led Zeppelin in mansarda e sognava di fare la rockstar». In alcune di queste canzoni sento anche un bacio sulla fronte di Joan alla più giovane Joanita. Come in una sfida in un O.K. Corral interiore, i riferimenti alle colonne sonore dei vecchi western, i timbri twangy, i “bang bang” da mezzogiorno di fuoco sembrano evocare un duello, coi cattivi che minacciavano i sogni della ragazzina di ieri presi a revolverate dalla donna di oggi. Forse Joanita è anche un disco sul desiderio di diventare quello che sogniamo.

Anche quando Joan Thiele racconta storie famigliari non facili come in Eco, quando in Bacio sulla fronte canta di un padre che “si faceva per non sentire niente”, quando evoca emozioni forti come la rabbia di Veleno, il tono non è mai gridato, l’esposizione non è mai spudorata, resta sempre un margine di mistero. Non è tutto chiaro, non è tutto esplicito, questo è un disco che si sente emotivamente prima ancora di capirlo razionalmente. È alimentato dalla tensione tra detto e non detto, tra i dialoghi della cantautrice con se stessa e musiche che ricollocano queste storie in una cornice estetica luminosa e appagante. E come in certi film, alla fine vincono i buoni.

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