Chi è Katy Perry? È una delle popstar di maggior successo del millennio grazie a pezzi frizzantini come California Gurls e inni all’empowerment tipo Firework. Ma è anche stata una giudice di American Idol, s’è esibita in un un halftime show del Super Bowl, ha partecipato ai festeggiamenti per un’incoronazione. Ha fatto tutto e l’ha fatto ad occhi chiusi e su un tacco 12.
Chi potrebbe essere Katy Perry nel 2024 è tutta un’altra storia. Lei cerca di dare una risposta nel sesto album 143. A maggio s’è messa Idol alle spalle, facendo presagire un ritorno al pop a tempo pieno. Il problema è che il mondo nel frattempo è cambiato e non ci si fa più ammaliare da bikini fatti di zucchero filato e allusioni ammiccanti al burrocacao gusto ciliegia. In un’epoca in cui le radio non sono più potentissime, persino megacelebrità del livello di Perry faticano a centrare una hit. Come se non bastasse, le sue tipiche produzioni cariche suonano datate come Vine. Pur essendo consapevole di non essere cambiata, Perry vuole comunque riavere l’influenza sulla cultura pop che esercitava tra la fine degli anni ’00 e l’inizio dei ’10. Per farlo, usa i trucchi a buon mercato che funzionavano all’epoca, tra cui la scelta di compiacere lo guardo maschile.
Uno di questi trucchi consiste nel riallacciare la relazione professionale con Lukasz “Dr. Luke” Gottwald, il produttore di I Kissed a Girl, la hit saffica che ha dato il via all’ascesa della cantante passata rapidamente dal Warped Tour ai concerti nei palazzetti. C’era lui nei team che hanno confezionato megahit come Roar o Dark Horse. Tornare a collaborare con Dr. Luke, che Perry aveva mollato ai tempi di Witness del 2017 sulla scia della disputa legale del produttore con Kesha, può aver senso dal punto di vista commerciale in un periodo in cui Perry fatica a trovare una collocazione nel pop, tanto’è che nel periodo in cui ha partecipato a Idol non ha piazzato alcun singolo nella top 10 americana e solo due nella top 20. E però il risultato è per lo più noioso, un tentativo che ha qualcosa di meccanico di rievocare i giorni di gloria piazzando qua e là qualche riferimento aggiornato.
Woman’s World, una specie di celebrazione robotica del femmineo, apre la strada a testi elementari e infarciti di cliché. La giocosità d’un tempo è rimpiazzata da rime stereotipate. Gorgeous è un duetto con Kim Petras, protégé di Gottwald, e sembra più che altro un omaggio a Unholy, con un pizzico in meno di goth e un beat trap in più. I’m His, He’s Mine sembra Gypsy Woman di Crystal Waters, anno 1991, suonata a 33 al posto che a 45 giri, mentre Nirvana è un pezzo da club in cui Perry canta di un rapporto psicosessuale con un partner “in the diamond sky”, il tutto su una base martellante che è fresca come la musichetta che ti piazzando quando sei in attesa al telefono. L’album si chiude con Wonder, un banger che però sembra un banale EDM-pop anni ’10 con un testo in cui si invita la nuova generazione a scrollarsi di dosso il “peso del mondo” e a rimanere “selvaggia” e “pura”.
“Qualcuno mi può promettere che la nostra innocenza non andrà perduta in questo mondo cinico?”, chiede Perry a un certo punto. È una domanda giusta da porsi nel 2024, peccato arrivi dopo dieci canzoni in cui si è tentato vanamente di far tornare Perry di moda. L’idea di mettere la figlia Daisy nel pezzo, che è anche l’unico dove non c’è Luke (è prodotto dai norvegesi Stargate), sembra quasi un tentativo di parare le critiche e non un modo per esprimere in modo sincero la speranza che la prossima generazione trovi un modo per raddrizzare le cose. L’ultima parola è affidata proprio a Daisy: “Un giorno, quando saremo più saggi, i nostri cuori avranno ancora quel fuoco?”. È un peccato che Perry non si sia fatta questa domanda mentre assemblava questo confuso tentativo di rimettersi al centro del pop.
Da Rolling Stone US.