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L’album delle boygenius non è buono come speravate: è anche meglio

Il supergruppo formato da Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus ha un nome che si scrive con l'iniziale minuscola, ma ha fatto un disco maiuscolo. Canzone americana anni '20 at its best

Foto: Harrison Whitford

La storia è piena di supergruppi, ma come le boygenius nessuno mai. Ecco perché l’etichetta stessa di supergruppo va loro stretta. Sono semplicemente una grande band che mette assieme tre brillanti cantautrici. Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus contribuiscono ognuna col suo stile peculiare e sono accomunate dallo spirito passa-il-microfono-sorella. Venerdì uscirà finalmente il loro primo vero album The Record (anzi, the record) e va oltre le più rosee aspettative. La sua forza sta nella stranezza, nell’imprevedibilità, nella sensazione di pericolo che ogni tanto trasmette. Unendo le forze, le tre dimostrano d’essere in grado di fare di tutto, di più.

The record supera di gran lunga l’EP che il trio ha pubblicato nel 2018. Quello era il risultato dell’incontro fra tre poetesse indie in cerca del perfetto amalgama. Erano tutte reduci dalla pubblicazione dell’album che le aveva fatte conoscere al mondo – Historian per Dacus, Turn Out the Lights per Baker, Stranger in the Alps per Bridgers – e si sono ritrovate piacevolmente spiazzate dal risultato. Forse non a caso hanno pubblicato i loro dischi migliori dopo quell’EP, rispettivamente Home Video, Little Oblivions e Punisher.

Ora però sono una vera band, con un’identità che va oltre la somma delle loro tre personalità. Il disco è costruito alla vecchia, 12 canzoni in 42 minuti divise tra canzoni dritte, stranezze e divertissement, pezzi buoni per l’air guitar e sussurri acustici. Nei testi c’è un bel po’ d’incazzatura, male d’amore, casini vari. Piace immaginare i personaggi delle canzoni con la testa piena di musica e in grado di trasformare le emozioni in suoni. Per loro, come canta Baker nella formidabile Anti-Curse, innamorarsi è come “scrivere parole per la peggiore canzone d’amore che si sia mai sentita”.

Solo una settimana dopo avere pubblicato quel discone di Punisher, Bridgers ha inviato un demo alle altre due chiedendo: «Che dite di tornare ad essere una band?». Hanno lavorato in gran segreto a the record con la co-produttrice Catherine Marks. Hanno fatto un mese di session agli Shangri-La Studios di Rick Rubin a Malibu, un bel cambiamento rispetto all’EP del 2018 che hanno dovuto fare in quattro giorni. Il risultato risponde alla domanda di Bridgers con un’altra domanda: come hanno fatto le boygenius a non essere una band per tutto questo tempo?

Un primo assaggio della nuova musica è arrivato a gennaio, in concomitanza con l’intervista di Rolling Stone: tre singoli scritti separatamente da una diversa autrice, $20 di Baker, Emily I’m Sorry di Bridgers, True Blue di Dacus. I pezzi che non avete ancora sentito sono quelli in cui la collaborazione è più stretta. Come canta Baker nel micidiale incipit di $20, è una cattiva idea, quindi ci sto.

In Not Strong Enough c’è l’inventiva sonora delle tre, prima una chitarra alla Joni Mitchell, poi richiami ai New Order anni ’80 e un ritornello che ribalta il significato di Strong Enough di Sheryl Crow. Revolution 0 (colto il riferimento al White Album dei Beatles?) è una ballata sofferta di Bridgers su una relazione a distanza e su “un amico immaginario, vivi nella mia testa”, che sfocia nella domanda: “Se non è amore, allora che cazzo è?”. Col suo banjo, Cool About It mette assieme tre diverse storie di incontri tra ex andati male, malissimo. “Una volta ho preso le tue medicine per sapere com’è”, canta Bridgers, “ora devo far finta di non essere in grado di leggerti i pensieri, ti chiedo come stai e ti lascio mentire”.

Lucy Dacus è nota per i lunghi soliloqui che somigliano a esorcismi, tipo Night Shift, Map on a Wall e Triple Dog Dare. Un po’ come Leonard Cohen, fonte d’ispirazione di uno dei suoi pezzi inclusi nel disco, non ha problemi a far canzoni che durano sette minuti. Nel pezzo forte dell’album We’re in Love passa in rassegna tessere di storie finite, cercando di farle incastrare. “Un giorno d’ottobre finirò la tv spazzatura e mi sentirò sola, andrò al karaoke e canterò la canzone che hai scritto su di me senza manco leggere il testo”. Sono emozioni sono troppo intense per il karaoke: “Spero che nessuno si metta a cantare con me”.

Nel caso non siate ancora scoppiati a piangere, verso la fine arriva We’re in Love, dove la cantautrice ribalta uno dei testi più brillanti di Taylor Swift: “I could go on and on and on / And I will”, cantano le boygenius citando This Love (era su 1989). È il picco emotivo dell’album. Anti-Curse è un pezzo di tutt’altra natura, con Baker che canta di resa dei conti su una base di chitarra e synth che sta da qualche parte tra The Joshua Tree e Since U Been Gone. Nel momento della verità, ricorda a se stessa che “non devi peggiorare le cose anche se sai come farlo”.

L’uno-due formato da We’re in Love e Anti-Curse è un bell’esempio dello spirito spavaldamente rock delle boygenius. In tutto the record giocano a ricombinare i loro stili individuali per creare una diversa alchimia in ogni canzone. Ecco perché trascendono i cliché legati ai supergruppi. In fondo, i supergruppi saranno in tutto una decina, le grandi band sono molte. E non c’è dubbio che le boygenius appartengono a quest’ultima categoria.

Da Rolling Stone US.

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