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L’album postumo di Sophie ci ricorda che abbiamo perso la producer più influente degli ultimi 10 anni

A poco più di tre anni dalla sua scomparsa, e grazie al prezioso lavoro del fratello Ben (con cui abbiamo parlato in esclusiva), arriva il secondo e ultimo disco dell'artista inglese il cui sogno era rendere il pop un luogo «più divertente, più stimolante, più eccitante». La Brat summer la dobbiamo anche e soprattutto a lei

Foto: Renata Raksha

Forse non tutti quelli che sono saltati sul carro della Brat summer sanno davvero da dove, e soprattutto da chi, è partita questa nuova stagione del pop. Dietro al percorso che ci ha portato dalla Charli XCX di Boom Clap a quella di Von Dutch, ovvero dal safe pop da classifica a quello più stimolante e interessante che alle chart ci è arrivato grazie alla sfrontatezza, piuttosto che con il compromesso, c’è una producer che – nel suo breve percorso di vita – ha lasciato un’enorme eco che ancora oggi si propaga imprevedibile e inarrestabile verso il mainstream, decostruendolo e sfidandolo a reinventarsi.

Lo scorso 17 settembre Sophie Xeon avrebbe compiuto 38 anni. Il destino, sotto forma di grande Luna piena, ce l’ha portata via il 30 gennaio 2021, in un incidente che nella sua tragicità ha qualcosa di poetico, come fatto notare da St. Vincent nella sua dedica Sweetest Fruit: “La mia Sophie si è arrampicata sul tetto per vedere meglio la luna / mio dio, un passo sbagliato l’ha fatta cadere negli abissi / ma per un attimo che vista magnifica”.

Sophie ci ha lasciato con un solo disco all’attivo, il successo di critica del 2018 Oil of Every Pearl’s Un-Insides (in realtà ci sarebbe anche Product del 2015, una raccolta dei suoi primi e strepitosi vagiti digitali come Bipp, Lemonade, Msmsmsm) e dopo una serie di intromissioni nel mainstream (con Madonna, Kim Petras, Vince Staples e, come detto, Charli XCX). Poco, troppo poco direbbe qualcuno, ma l’impatto di quel materiale è stato così potente da aver plasmato il suono e la forma mentis di molti artisti e artiste che oggi hanno conquistato le classiche grazie a un pop ambizioso e scellerato. A suo modo, un meteorite.

Sophie è stata un sasso capace di generare infinite increspature nel lago del pop. Un movimento che lento si è sedimentato nelle coscienze delle popstar e che ha trovato la sua sublimazione in Brat di Charli XCX, la cui conoscenza di Sophie portò a Vroom Vroom, un EP di coppia che ha avuto la funzione di spartiacque nella carriera della popstar. Non è un caso che proprio in Brat ci sia una canzone dedicata a Sophie. “Quando lavoro alle mie canzoni penso alle cose che mi suggerivi”, canta Charli in So I, a dimostrazione di come ancora nel 2024 l’eco del lavoro di Sophie sia più che mai presente nel pensiero della artista pop del momento.

Chiamatela, se volete, serendipità: nel 2024 sono infatti arrivate tre canzoni dedicate a Sophie. Oltre alle già citate So I di Charli e Sweetest Fruit di St. Vincent («sono una sua fan, è stata una rivoluzionaria», ci ha raccontato l’artista qualche mese fa), si aggiunge anche Without di A.G. Cook, che nelle sue scorribande sonore con Sophie arrivò addirittura a creare un fittizio e ironico progetto musicale di nome QT («volevo far qualcosa che le rendesse giustizia», ci ha spiegato nella nostra intervista). Aggiungiamoci pure una corporate come Google che nel giorno del suo 38esimo compleanno ha deciso di dedicarle un Doodle; non sembra allora così assurdo che questa settimana sia arrivato l’atteso secondo (omonimo) disco di Sophie, l’album a cui l’artista stava lavorando nei mesi (e anni) prima della morte.

«Non penso che abbia mai pensato “cambierò la musica pop”», ci racconta Ben Long, il fratello di Sophie che in questi ultimi anni ha lavorato, con una serie di collaboratori e collaboratrici della sorella, a questo disco postumo. «Ma sicuramente è sempre stata dell’idea che il pop dovesse essere più divertente, più stimolante, più eccitante. E che questo stia in parte accadendo per merito suo penso l’avrebbe resa felice».

Se pensiamo a Brat, infatti, non possiamo che essere d’accordo sul fatto che il risultato il periodo formativo di Vroom Vroom abbia portato a uno degli album pop più divertenti, stimolanti, eccitanti degli ultimi anni. Questa è stata la lezione (e la missione) di Sophie: prendere i canovacci del registro mainstream per spingerli al di là del prevedibile e del previsto. Alto e basso, avanguardia e camp, accelerazionismo e retrofuturismo. “Falla più veloce”, uno slancio d’impeto futurista con cui Charli ricorda i consigli della producer in So I, nella quale cita anche uno dei capolavori estetici e sonori di Sophie, It’s Ok to Cry, il brano che nel 2017 per la prima volta ce la svelava dopo la transizione nuda tra i cieli (preveggenza?). Una scelta volutamente politica così come tuta l’arte che ha sempre contraddistinto Sophie, dalla produzione, all’estetica, alla scelta delle collaborazioni.

Ben è sempre stato coinvolto nella musica della sorella. È stato lui ad affiancarla nelle registrazioni e nel mix di Oil of Every Pearl’s Un-Insides e, come in passato, anche per quest’ultimo album era totalmente coinvolto: «Abbiamo sempre fatto tutto assieme, da soli. Sophie pensava a questo disco da parecchio tempo, dal 2018, appena terminato il precedente. Tutto questo materiale lo stava provando sotto varie forme nel tour di quegli anni, continuando a lavorarci, a fare modificare, a sperimentare nuove idea. Come in quel tour, così in questo disco, si sente infatti una maggiore influenza techno». E aggiunge: «Di Sophie c’era già tutto, e di quel che mancava avevamo già parlato. A noi non restava il compito che chiudere i piccoli buchi rimasti con le indicazioni che ci erano state date».

Definire Sophie un album techno però sarebbe errato. Sophie è più una collezione di musica d’archivio (anno 2021) che mostra per un’ultima (?) volta l’ampiezza di suono, di visione, di concetto della producer inglese. C’è la techno, o l’incubo della techno, nella Berlin Nightmare con Evita Manji o in Plunging Asymptote con un’altra compagna d’avventura, Juliana Huxtable, con cui a fine 2019 formò il duo Analemma. C’è, ovviamente, anche il chewingum pop d’avanguardia di Reason Why con Kim Petras & Bc Kingdom e di Exhilarate con Bibi Bourelly, nonché il futurismo transfemminista di quello che risulta essere uno dei pezzi più riusciti del disco, The Dome’s Protection, l’imprevedibile collaborazione post-apolicattica con la regina della techno Nina Kraviz. «È uno dei pochi pezzi che non ho visto nascere», racconta Ben «ma so come è nato. Sophie e Nina si conoscevano da un po’. Per un evento a Miami si sono trovate in cartellone la stessa sera, così il giorno precedente ai loro show si sono incontrare in hotel e hanno buttato giù questo brano. Sophie era così, è sempre stata spontanea».

Questo caleidoscopio di tracce alieni rendono Sophie un visore VR che ci sprona a superare la soglia di un universo 3D di suoni e idee che si rincorrono e ci rincorrono continuando a smontarci certezze di genere. L’effetto che lasciano, però, è agrodolce: un disco di brani a loro modo datati non potrà mai infatti rendere davvero giustizia a una producer come Sophie che il futuro, di per sé, l’ha inventato. Siamo sicuri che nel 2024 Sophie sarebbe stata altri 10 anni in avanti.

«Guardando indietro è come se Sophie avesse sempre conosciuto il futuro in anticipo», ha scritto sui propri social Hannah Diamond parlando di Always and Forever, la canzone che le due hanno composto per questo album. Un commento più che mai appropriato: Sophie (l’artista) era il futuro, Sophie (il disco) un racconto di un passato su cui proiettiamo la nostalgia di un’artista che ci è stata rubata con troppo fretta. Tra 10 anni ascolteremo ancora le sofisticate stratificazioni di Oil of Every Pearl’s Un-Insides, più difficilmente questo lavoro. Ma oggi il valore di riavere nelle cuffie nuove produzioni di Sophie è una questione puramente sentimentale, e nella musica i sentimenti spesso sono tutto.

Ma perché pubblicare questo disco oggi, a tre anni abbandonati dalla sua scomparsa? Risponde Ben: «Vedere quegli hard disk prendere polvere era un affronto. Sophie era una persona che amava comunicare con le persone, e di certo avrebbe voluto che la sua musica fosse fuori, per tutti, e non dentro degli hard disk». Se gli album postumi, per il bagaglio nostalgico che si portano dietro, rischiano spesso di essere accozzaglie poco riuscite nelle discografie degli artisti scomparsi prematuramente, Sophie si salva proprio perché non è una pubbicazione che punta a sfruttare un’eredità, bensì un gesto d’amore. Non solo l’amore di un fratello, ma anche di tutte le persone che ci hanno partecipato: «Immagino che tutti ci abbiano un po’ sofferto a rimettere mano a questi progetti. Ma parlando con chi ci ha lavorato ho capito che ha aiutato ognuno di loro a elaborare questa perdita. I nomi che vedi in tracklist non erano solo collaboratori, e questo ci tengo a rimarcarlo, ma amici e amiche di Sophie. C’è stata tristezza, tante emozioni, ma alla fine è prevalsa la gioia».

Sophie, nella storia della musica, è stata una parentesi di gioia. E se questo album contribuirà a ridare vigore alle increspature del grande lago del pop, o della musica in generale, avrà fatto più di quanto era stato richiesto. «Sicuramente c’è altra musica nei suoi hard disk, non escludo che ci potrà essere occasione di pubblicare altro», conclude Ben con un filo di speranza, con l’amore fraterno di chi non ha ancora superato la perdita di una sorella.

Sophie non è un disco perfetto, ma non ha nemmeno l’ambizione o la volontà di esserlo. È piuttosto un album che serve per ricordare, e sottolineare, la figura di quella che è stata la producer più importante e influente degli ultimi dieci anni. Ora andate e ascoltate, lasciate fluire le emozioni, e ricordatevi la cosa più importante: it’s ok to cry.

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