Nel 1973 George Harrison stava uscendo alla grande dal dissoluzione dei Beatles. Era diventato una superstar solista grazie al triplo All Things Must Pass e al concerto per il Bangladesh, benefit dall’intento nobile e dal cast pieno di star. Finalmente s’era liberato dai Fab Four e aveva ottenuto quel che aveva sempre desiderato. Tutto ok, quindi? Non esattamente. George era nel bel mezzo di una crisi spirituale, che ha raccontato in Living in the Material World, il suo capolavoro dimenticato, nonché l’album più strambo della sua vita.
Strano che la nuova edizione non sia uscita l’anno scorso, quando cadeva il 50° anniversario. O forse è in qualche modo appropriato che esca in ritardo visto che si tratta di un album a lungo trascurato e il documento di uno smarrimento esistenziale. Col passare degli anni All Things Must Pass è stato sempre più osannato e ha finito per eclissare Material World, che è rimasto relegato nella zona dei dischi minori dei Beatles solisti in compagnia di Red Rose Speedway, Live Peace in Toronto 1969 e Ringo the 4th. Gli eredi non sono mai sembrati desiderosi di ridargli visibilità. Ora però è finalmente arrivato il suo momento.
Harrison fa un passo indietro rispetto all’epicità di All Things Must Pass. Quello del ’73 è l’album di una band, la seconda migliore che abbia mai avuto, un piccolo gruppo di amici fidati: Klaus Voorman al basso, Jim Keltner alla batteria, Nicky Hopkins al pianoforte, Gary Wright all’organo. Il suono è intimista, a misura d’uomo, all’insegna di una semplicità che è magnifica in pezzi come Be Here Now, Don’t Let Me Wait Too Long e nella hit Give Me Love (Give Me Peace On Earth).
La nuova edizione valorizza finalmente Material World. È stato remixato da Paul Hicks, che ha già fatto un ottimo lavoro per il box dedicato a All Things Must Pass del 2019, con un disco bonus di ottime alternate take. La Super Deluxe Edition ha un packaging ricco che comprende un disco Blu-Ray con audio Dolby Atmos, un libro di 60 pagine e un singolo su vinile da 7” di Sunshine Life for Me (Sail Away Raymond), una canzone che George ha regalato a Ringo per il suo album omonimo del 1973, un canto marinaresco in cui i due se la spassano con Levon Helm, Robbie Robertson, Garth Hudson e Rick Danko, ovvero The Band.
Per la prima volta produttore di sé stesso, Harrison tornava a suonare il sitar, lo strumento che l’aveva instradato verso il suo viaggio spirituale, ma con cui non incideva nulla da anni. È il suo album cantautorale di indie rock ante litteram: a tratti potrebbe ricordare Elliott Smith o i Pavement, soprattutto per l’atmosfera alla Wowee Zowee di The Day the World Gets ’Round.
L’umore di Harrison non era il massimo. Nonostante la svolta religiosa, sguazzava nel caos del sesso e della droga. Dopo il duro lavoro fatto per il Bangladesh, si sentiva tradito. Gli amministratori di cui si era fidato avevano gestito malissimo i fondi, lasciandolo con un milione di sterline di tasse da pagare. E poi c’era l’infinito garbuglio legale dei Beatles, che gli ha ispirato Sue Me, Sue You Blues.
A livello più strettamente personale, la sua amata madre Louise era morta a luglio del 1970. Il peso della perdita si sente in tutta la sua musica, soprattutto nello splendido inno Be Here Now, il lamento di un figlio devastato dal dolore che ripete il mantra “non è più come prima”. Il sitar dà quell’effetto bordone ossessivo tipico della musica indiana, ma è anche una canzone molto californiana, scritta sulle colline di Hollywood, con una chitarra alla Neil Young. Un po’ come John con Julia o Paul con Let It Be, anche George ha composto alcune delle sue cose più intense nei momenti peggiori.
Il disco bonus è una delizia: non ci sono inediti, a differenza del ricchissimo box dedicato ad All Things Must Pass del 2019, ma troviamo versioni alternative mai sentite prima di alcune canzoni. Be Here Now (Take 8) lascia senza fiato: è minimale e drammatica, senza sitar, ci sono solo Harrison all’acustica e Nicky Hopkins al piano. Jim Keltner di tanto in tanto aggiunge un “bum” o un rumore di piatti, altrimenti non ci si accorgerebbe della sua presenza. Si capisce dalle outtake che quello è stato l’unico periodo in cui Geroge ha fatto il bandleader, lavorando con un gruppo affiatato di musicisti a lui affini.
Sembra rigenerato nel brano acustico e frizzante Don’t Let Me Wait Too Long: la voce è fortissima, ma di lì a poco la gola avrebbe iniziato a dargli problemi. Who Can See It è molto più vivace rispetto alla versione dell’album, e pensare che è la take numero 93. Probabilmente George non aveva bisogno di Paul per creare in studio un caos tipo White Album.
C’è anche la B side funky Miss O’Dell, che avrebbe meritato di essere nell’album. George spettegola su Chris O’Dell, vecchio amico e compare della Apple, ridendo troppo per cantare la seconda strofa sulla parte di campanaccio di Keltner. Con nonchalance menziona “Garston 6922”, il vecchio numero di telefono di Paul a Liverpool. È il momento in cui più ci si avvicina al puro divertimento rock’n’roll di pezzi come Apple Scruffs o Wah Wah. Alla fine però non l’ha inclusa nell’album: essendo divertente avrebbe stonato col tono spirituale del resto.
Quand’è uscito Material World ha avuto successo, ma è ben presto finito nel dimenticatoio. Dark Horse è stato pubblicato in fretta e furia un anno dopo, diventando il primo album di una rockstar che soffriva di un caso conclamato di laringite, un cocktail letale di prediche sgolate e torpore indotto dal mix di alcol e sonniferi. Ma perché Dark Horse non è stato rimandato fino a quando la voce di George non si fosse ripresa? Non è stato fatto perché era impaziente di guadagnare dopo il disastroso tour del 1974 che ne aveva danneggiato a tal punto la reputazione da azzerare la stima che aveva guadagnato con fatica nel periodo di All Things e del concerto per il Bangladesh. Alla fine, ha acnhe rovinato la reputazione di Material World. Le canzoni sono scomparse dai palinsesti radio e il pubblico ha deciso che George aveva dato tutto con un solo album solista degno di essere considerato un classico, per poi bruciarsi.
L’incontro con la moglie Olivia Arias ha riportato la luce nella sua musica. Quando, alla fine degli anni ’80 la sua carriera è nuovamente decollata, la gente era talmente felice di ritrovare George da decidere di perdonargli buona parte della produzione anni ’70 post All Things Must Pass. E ciò ha anche significato mettere da parte anche grande musica. Living in the Material World è un disco pieno di momenti in puro stile Harrison, vale la pena riscoprirlo.
Da Rolling Stone US.