Ha cantato di astronauti che arrivano sulla Luna e trovano una lepre, di un bambino che fa il giro della morte sull’altalena e sparisce nel nulla, di un amico talmente secco che il vento lo porta via, del progetto di scavare un buco e arrivare in Cina. Ha trasfigurato il mondo con una fantasia sfrenata e s’è fatto voler bene raccontandoci quel che noi mai immagineremmo. Noi guardavamo un treno, lui vedeva lo spirito di un vecchio pellerossa, noi ascoltavamo un disco, lui sentiva un’astronave. Ci ha fatto capire nell’arco di tre album e un paio d’EP che non si ripensa il mondo forzando i limiti della razionalità per fuggire, ma per immaginarne uno migliore. Non ha mai aperto gli occhi per tornare alla nostra sbiadita realtà.
Ora Lucio Corsi è cambiato e Sanremo non c’entra. Nel disco che ha pubblicato oggi e che s’intitola come la canzone Volevo essere un duro tiene i piedi più saldamente a terra. Al posto di cantare di cose, animali e astronavi racconta di sé e dei suoi amici, veri o immaginari, veri e al tempo stesso immaginari. Non è un arretramento, è un cambiamento ricercato, c’è l’idea di provare a dipingere ritratti in musica senza rinunciare alla dimensione del sogno. «Tendere al cambiamento è fondamentale», mi dice Corsi durante in una breve intervista. «Ho voluto riprendere la realtà da un’altra prospettiva, che non è quella di un drone, ma quella di una camera a livello del terreno. E da quel punto di vista molte cose possono risultare comunque fantastiche. Me lo sono imposto, volevo imparare a scrivere anche questo tipo di canzone più diretta e semplice». C’è riuscito benissimo.
E quindi Volevo essere un duro è anche una galleria di personaggi che spesso hanno un nome e a volte anche un cognome. Come Francis Delacroix, un talkin’ blues che si riallaccia a certe canzoni anni ’60 di Bob Dylan, allucinazioni scritte con la libertà dei beat in cui personaggi storici e fittizi vivevano nel presente e tutto era possibile, anche che Caino e Abele fossero contemporanei di Cenerentola e del Gobbo di Notre Dame. In Francis Delacroix il fotografo («imprigionatore di voci e rumori», nel linguaggio corsesco) diventa un furfante epico, un catalizzatore di vita e di guai, un bugiardo che dice sempre la verità, uno che giura di avere fumato col Buddha nel camerino di Bob Dylan, uno che “nel giugno del ’44 era sulla Santa Maria quando sbarcarono in un quadro di Picasso e scoprirono la Normandia”. Non è vero, ma è vero. Ed è molto rock’n’roll questo impulso a inventare per sé e i propri amici un mondo più bello, avventuroso e imprevedibile di quello che ci tocca.
Volevo essere un duro è anche un disco sull’infanzia e l’adolescenza, e quindi sui ricordi e forse anche sul tempo che passa e che va esorcizzato. Tu sei il mattino racconta la scoperta del sesso e Volevo essere un duro le vane ambizioni di quando si cresce. Let There Be Rocko è il racconto dai toni rocamboleschi di un compagno delle medie, mentre Il re del rave è un personaggio di quando Corsi era ragazzino, una «sagoma romantica e sgangherata», direi anche po’ tossica. Ripensa a quei giorni con gusto e divertimento, ha uno sguardo tenero e affettuoso nei confronti di quell’epoca e di quelle persone. «È un’infanzia reinventata. Se lo reimmagini, anche il passato può diventare sorprendente quanto il futuro». Cosa faremo da grandi? l’ha pubblicato cinque anni fa. Questo è un Cosa faremo da piccoli?.
In Italia abbiamo una bella tradizione di canzoni di provincia, di piccole vicende marginali che grazie al talento e all’osservazione empatica diventano epiche, le osterie di Guccini, la domenica mattina a Zocca di Vasco Rossi, le partite di carte al bar di Ligabue. È un nostro patrimonio nazionale, sono storie che a volte dimentichiamo d’avere e valorizzare. Corsi, che è cresciuto in provincia di Grosseto, è contento di venire dalla campagna e racconta persone e angoli di mondo provinciali, là dove «la noia ti costringe a far lavorare l’immaginazione». Li trasforma in piccoli film sonori coloriti e un poco allucinati, esercitando una fantasia che non ha pari oggi nella canzone italiana. «Sono storie piene di vita, di fughe, di sogni irrealizzabili. Sono magnifiche proprio perché sono minuscole, ma epiche. Sono gigantesche perché nate in un luogo piccolo».
In La gente che sogna Corsi evocava il glam rock e costruiva certe canzoni sovrapponendo strati su strati di musica, «con la voglia di buttarci dentro tutto». Volevo essere un duro ha invece un suono scarnificato, pur essendoci begli arrangiamenti per archi (Davide Rossi) e fiati (Enrico Gabrielli). È un disco volutamente più semplice dal punto di vista musicale proprio perché gira attorno ai testi, «che sono meno onirici e così anche la musica ha meno fronzoli». Corsi s’ispira come sempre al passato, da John Cale a Ivan Graziani, un’influenza forse mai così evidente, dai Blues Brothers a Edoardo Bennato, ma a differenza di tanti altri ha sufficiente personalità da farti capire che quella musica è anche sua, che non la prende a prestito, che c’è dentro. Ci mette anche il suo modo di cantare semplice e tenero, spontaneo e leggero, dolce ma non sdolcinato, naturale ed emozionante, uno stile che porta con sé quel po’ di commedia (o di tragicommedia) che ci vuole.
Il disco finisce coi sei minuti e passa di Nel cuore della notte, una di quelle canzoni che potrebbero andare avanti all’infinito, il racconto di giri in auto con gli amici alla ricerca di chissà cosa. Corsi si scopre un po’, cosa rara, in Sigarette e soprattutto in Questa vita, che è una sorta di dialogo con sé stesso, o meglio «una riflessione a due col mio cervello» pensata come certe vecchie cose di Rino Gaetano o di Alberto Fortis. È una canzone su questa vita che “ci schiaccia ma non ha alcun peso” ed è allo stesso tempo malinconica e gioiosa, se non liberatoria. Non è tutto intelligibile e Corsi dice che è bello così: «Son cose private e poi è affascinante quando ascolti un pezzo e non sai con precisione cosa voleva dire l’autore». Sta anche nell’indeterminatezza la forza di certe canzoni.
E quindi dopo Sanremo c’è quest’album che non è la grande dichiarazione artistica che magari qualcuno s’aspettava, ma un disco piccolo che è grande proprio per questo. Da quand’è finito sulla bocca di tutti e ha persino annunciato due concerti negli ippodromi (dove sarà accompagnato non solo dalla sua band di sette elementi, ma anche da fiati e cori, e si ispirerà alla Rolling Thunder Revue, a The Last Waltz, a Wings over America), chi vuol bene alla sua musica ha cominciato a chiedersi: non è che Lucio Corsi diventerà come tutti gli altri? Volevo essere un duro ci dice che non si è snaturato. Lui aggiunge che «tutto questo mi è successo per fortuna a 30 anni e dopo anni di concerti, dischi e relazioni che mi permettono di restare ancorato alle cose che amo, alla musica, alle canzoni. Non è cambiato nulla. Io e i ragazzi con cui suono teniamo i piedi per terra. Siamo come certi alberi che crescono e poi si scavano la fossa lì dove sono sbucati».